Opposti estremismi/I fantasmi della Storia per la fuga dal presente

di Alessandro Campi
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Lunedì 12 Febbraio 2018, 00:05
Il fascismo del Terzo Millennio, che in molti italiani genera paura e allarmi crescenti, è l’altra faccia dell’antifascismo del Terzo Millennio, che in altrettanti italiani genera fastidio epidermico e ripulsa: l’uno razzistoide e dal linguaggio minacciosamente truce, l’altro barricadiero, intransigente e come sempre perso nelle nebbie dell’utopia, sono a guardarli bene due anacronismi ideologici che si rafforzano a vicenda, e che stanno gettando un’intera nazione nella palude di un passato finito da un pezzo ma che si tende a evocare (col rischio persino di farlo risorgere) in mancanza evidentemente di altre certezze o credenze cui aggrapparsi nel presente. 

Ciò che sta accadendo in Italia – anno del Signore 2018, mentre è in corso la più desolante e povera campagna elettorale della storia repubblicana – ha davvero dell’incredibile, con riflessi nella nostra vita pubblica che rischiamo di pagare pesantemente. L’implosione a tutti i livelli della politica, dalle sue tradizionali forme organizzative alle culture e ideologie che l’hanno alimentata per decenni, ha creato un tale vuoto che per compensarlo c’è chi pensa sia possibile e utile richiamarsi ai fantasmi della nostra storia riproponendo contrapposizioni e linee di conflitto che si credevano superate una volta per tutte. 


È in realtà accaduto anche in altri tornanti della nostra storia recente, come quando per contrastare la pseudo rivoluzione anarco-liberale del berlusconismo si rispolverò la tesi degli italiani naturaliter inclini al culto dell’autorità e dell’uomo forte, ma stavolta siamo a un passo dal parossismo e dall’isteria, spesso sostenute da un curioso mix di ignoranza e malafede.

La fine storica del fascismo, con la Seconda guerra mondiale, non ha ovviamente impedito nel corso dei decenni il permanere o rinascere di gruppi di destra radicale e di organizzazioni estremistiche ispirate ai suoi simboli e alle sue parole d’ordine. Ma si è sempre trattato di frange lunatiche e marginali che le democrazie, a partire da quella italiana, hanno al tempo stesso sopportato (in omaggio al pluralismo che le ispira) e controllato (in considerazione dell’indisponibilità delle masse a rinunciare al valore della libertà). Ora, d’improvviso, quel lascito nostalgico, residuale nel suo patetico anacronismo, si sarebbe trasformato in una marea dilagante (addirittura su scala europea) da frenare con ogni possibile mezzo, col riproporsi di un clima sociale e politico, fatto di violenza endemica e di caccia al nemico per le strade, appunto simile a quello che vide l’affermarsi del fascismo in Italia e, peggio ancora, del nazismo in Germania.

Non sarebbe il caso di fermarsi un attimo a riflettere sull’opportunità e la plausibilità storica di certi parallelismi, prima che la situazione sfugga di mano? Nelle nostre società ci sono in effetti molte ragioni di malcontento: dalle disuguaglianze economiche crescenti allo sfilacciarsi delle relazioni sociali che negli individui produce anomia e smarrimento, dal ridursi delle risorse attraverso cui garantire servizi e assistenza ai cittadini all’accentuarsi di fenomeni (in primis l’immigrazione verso il mondo ricco dalle zone povere e turbolente del mondo) che per essere malgovernati generano ansie e timori spesso irrazionali. Il cosiddetto populismo è esattamente il termometro politico di queste diverse forme di malcontento.

Ed è un fenomeno che andrebbe, più che denunciato e demonizzato, neutralizzato dando una soluzione pragmatica al malessere sociale ed esistenziale che lo alimenta. 
Il problema è che siamo alle prese con una accelerazione della storia che in effetti ha trovato impreparata la politica e i governi (con i loro strumenti spesso ottocenteschi) e che ha altresì liberato su scala mondiale forze – a partire da quelle economiche-finanziare – che sembrano sfuggire a qualunque controllo istituzionale o responsabilità etica. Tutto questo può in effetti produrre reazioni istintive, individuali e di gruppo, nel segno dell’intolleranza e di una violenza che oggi per fortuna non ha più alcuna sorgente o giustificazione intellettuale, ma si nutre solo di frustrazione personale e al massimo fanatismo (come nel caso dello sparatore solitario di Macerata). 
Ma proprio perché il quadro storico in cui viviamo appare tanto magmatico e controverso ha senso, invece di inventarsi nuove ricette politiche e nuovi chiavi di lettura della realtà che abbiamo sotto gli occhi, rispolverare l’armamentario propagandistico dei nostri nonni? Se un cretino indossa la camicia nera (o bruna) bisogna per forza rispondergli mettendosi al collo il fazzoletto rosso? 

Nello psicodramma italiano di questi giorni s’è vista certamente all’opera la nostra proverbiale tendenza al settarismo, non esente da una certa inclinazione all’uso della violenza come strumento di lotta politica. Ma soprattutto si è resa manifesta, caso forse unico in Europa, la manca totale di élite sociali e gruppi dirigenti (dal mondo giornalistico-culturale a quello politico) in grado di farsi guidare dalla ragionevolezza, dalla prudenza e dal senso del bene comune quando tutt’intorno si rischia il caos politico e la confusione delle idee. E di intervenire nel dibattitto pubblico per riportare la calma invece di attizzare il fuoco.
Si assiste invece ad uno scontro tra opposte e irresponsabili forme di propaganda che rendono l’Italia prigioniera suo malgrado di una sorta di guerra tra antiche e inconciliabili memorie, tra simboli e slogan d’un passato che nel frattempo ha perso quasi tutti i suoi protagonisti reali e che dunque appare sempre più usurpato e manipolato da chi lo rivendica senza averne in realtà alcun titolo.

Ad una sinistra settaria e incapace di liberarsi delle sue idiosincrasie ideologiche, sempre pronta a salire sulle barricate per costruire un mondo migliore che non esiste, si contrappone dunque una destra forte della sua grossolanità e capace solo di giocare con le paure e gli istinti. Ma in mezzo c’è probabilmente un vasto pezzo di Paese, smarrito e al momento senza parola, che vorrebbe sentire altro che proclami allarmistici e inviti alla mobilitazione, che non ci sta a farsi inchiodare al proprio passato o alla sua cattiva memoria, che dalla politica ancora si aspetta proposte, soluzioni e parole di credibile speranza, non reprimende nel nome di valori nei quali persino chi li professa forse ha smesso di credere. 

È quella massa di italiani che spesso si tende a disprezzare come maggioranza benpensante, qualunquisticamente interessata solo al proprio particolare, incapace di grandi slanci ideali, ma che in realtà è solo guidata da un istintivo buon senso e che il prossimo 4 marzo, come reazione al delirio di questi giorni, potrebbe decidere di farsi sentire lasciando finalmente gli estremisti d’ogni colore e i manipolatori del passato di professione al loro destino di minoranze tanto rumorose quanto (per nostra fortuna) irrilevanti. 
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