Pink Floyd, il batterista Nick Mason: «Quest'anno suonerò nei club il nostro primo repertorio»

Pink Floyd, il batterista Nick Mason: «Quest'anno suonerò nei club il nostro primo repertorio»
di Simona Orlando
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Mercoledì 17 Gennaio 2018, 11:11 - Ultimo aggiornamento: 23 Gennaio, 17:29
Nick Mason, 74 anni fra pochi giorni, ci riceve in camerino, dandoci da gentleman la sedia d'onore, sistemandosi su quella di plastica. Della band, è quello che ha più voluto e contribuito alla mostra Their Mortal Remains, forse perché nell'alternarsi delle alleanze interne, lui è sempre stato il più diplomatico, batterista fisso nell'arco dell'intera avventura floydiana.

Cosa si prova a rivedere 50 anni di carriera in uno spazio?
«Roger Waters l'ha vista per la prima volta qui a Roma. Io sono più avvezzo, l'ho vista almeno 50 volte eppure scopro sempre cose nuove. Sfogliamo il nostro album di foto e, vedendo ciò che abbiamo fatto al completo, tutto sembra più premeditato. In realtà procedevamo per tentativi, a volte confusi, altre con un pizzico di fortuna. Le nostre trasformazioni e movimenti non furono così rapidi. La mostra ci rende più intelligenti e scaltri di quanto non fossimo davvero».

Nel 1968 suonaste al Piper. Che ricordi ha?
«Ricordo l'entusiasmo incredibile, che ci spiazzò. Era la prima volta che suonavamo in Italia e scoprimmo che qui ci seguivano più che in Gran Bretagna, dove il pubblico era diviso. Dalla nostra avevamo i ragazzi delle università, gli altri non erano ancora pronti per noi. Ho immagini più vivide del nostro concerto a Cinecittà del 1994, anche perché guidavo io uno dei furgoni per entrarci dentro».

È stato doloroso maneggiare il materiale relativo a Syd Barrett?
«La sala dedicata a lui è sicuramente il segmento che mi emoziona più. Dopo Syd siamo diventati tutti più professionali, lui rappresenta la genuinità dei nostri esordi. Era un personaggio così interessante, lo è ancora, riascoltando le sue interviste. Solo oggi cominciamo a comprendere cosa potrebbe essergli accaduto. Di recente si è scoperto che al tempo c'era un tipo specifico di lsd chiamato stp, dieci volte più potente. Ha dato gli stessi effetti a chi l'ha provato».

È convinto che sia stata la droga ad alienarlo?
«Siamo sempre molto cauti ad attribuire ciò che è successo alle droghe. Presumiamo, non sappiamo. Poteva anche dipendere da altro. La verità è che eravamo agli antipodi. Pensavamo dovesse essere pazzo perché non era d'accordo nel diventare una rock band di successo, in realtà adesso mi rendo conto che il suo punto di vista poteva non essere sbagliato. Comunque pensavamo che sarebbe tornato sui binari».

La mostra diventerà documentario?
«Non credo. È di natura riflessiva, ognuno la vede da solo, passa il tempo che vuole davanti agli oggetti e ai video. Non è un'autocelebrazione, guarda avanti, alle nuove tecnologie e spiega ai più giovani come lavoravamo noi. Ci tengo a dire che i biglietti venduti anni fa a Milano, dove la mostra non si fece, saranno validi per Roma».

Avete preso spunto dalla spettacolare mostra David Bowie Is. Vi conoscevate bene?
«Sì, faceva altrettanto attenzione all'aspetto visuale e sonoro. Disse di essere stato musicalmente influenzato da noi, sebbene non si direbbe, vista la sua originalità. Abbiamo ricambiato».

Sa che adesso le devo fare la domanda sulla reunion?
«La vedo difficile. Roger non mi sembra disponibile. Io continuerò a occuparmi delle nostre masterizzazioni e quest'anno tornerò a suonare nei club il repertorio dei primissimi Floyd. Quelli di Syd».
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