Della Valle: «La vera sfida è convincere i nostri giovani a restare qui»

Della Valle: «La vera sfida è convincere i nostri giovani a restare qui»
di Giusy Franzese
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Giovedì 21 Dicembre 2017, 10:15 - Ultimo aggiornamento: 10:37
Se la politica non ci riserva delle brutte sorprese, penso alla ingovernabilità o ai litigi sulle piccole cose marginali che fanno perdere il senso del disegno generale del Paese, direi che il 2018 potrebbe essere l'anno del segno più, percepito anche dalla gente comune». Potremmo definirlo un ottimismo cauto e circospetto, quello del presidente del gruppo Tod's, Diego Della Valle.

Il 2017 chiuderà con una crescita del Pil dell'1,5%. E secondo il premier Paolo Gentiloni nel 2018 viaggeremo al 2%. Ha anche lei questi segnali?
«Il presidente del Consiglio ha sicuramente informazioni attendibili. Se cresceremo più del previsto è ovviamente una buona notizia. Credo però che alla gente comune, alle famiglie, questo segnale di ripresa ancora non sia arrivato».

Il settore del lusso, dopo due anni di stagnazione, dovrebbe chiudere con un +5%. Un trend che secondo stime della fondazione Altagamma si ripeterà nel 2018. Sono stime credibili?
«Sì, assolutamente. Negli ultimi due anni è cambiato tanto nel nostro mestiere e le imprese del settore hanno fatto un grandissimo lavoro rivedendo il business model, adeguandolo all'e-commerce e al digitale. Gli imprenditori non si sono fatti trovare impreparati e, finiti gli anni della ristrutturazione, ora sono pronti al nuovo sviluppo».

Il suo gruppo - che opera con i marchi Tod's, Hogan, Fay e Roger Vivier - ha superato gli anni della recessione spesso con risultati migliori della media del settore. Gli ultimi dati parziali di quest'anno mostrano un buon andamento nei mercati asiatici, in particolare in Cina, e qualche difficoltà in altri mercati come quello americano. Conferma?
«Nel momento delle ristrutturazioni queste cose sono fisiologiche. Chiuderemo comunque un anno buono. E prevediamo ottimi risultati per il prossimo. Negli Stati Uniti in particolare c'è una debolezza generale dei consumi e un'evoluzione legata ai department stores, stanno cambiando tutti i modelli distributivi. Credo che il prossimo anno negli Usa, non solo per noi, sarà ancora di transizione. Dopo di che anche quel mercato di 380 milioni di persone ricomincerà a funzionare alla grande. Intanto come gruppo abbiamo messo in atto tutto un lavoro per creare una struttura distributiva omni-channel, e prevediamo di rafforzarci ancora di più in Cina».

Lei lo ha accennato: la gente comune la ripresa non la percepisce. Anche l'occupazione, nonostante in termini assoluti sia ritornata ai livelli pre-crisi, in realtà zoppica. I nuovi posti sono soprattutto a termine. Insomma dilaga il lavoro precario e scarseggia quello stabile.
«Il mercato del lavoro è ancora in forte sofferenza. Soprattutto per i giovani, a cui manca una prospettiva di trovare un lavoro adeguato nel nostro Paese. E io mi auguro che sia un lavoro non a termine. Nel frattempo però se ci sono condizioni, legalmente corrette, che permettono alle persone di lavorare per dei periodi determinati, è meglio di niente. L'obiettivo finale deve comunque essere quello di poter dire ai giovani: restate in Italia perché qui c'è un futuro».

Ma perché gli imprenditori non assumono a tempo indeterminato? Temono che la ripresa non sia duratura oppure il posto fisso non esiste più?
«Aspettiamo che la ripresa sia concretamente tangibile per tutti e poi sono convinto che le imprese saranno pronte anche ad assumere stabilmente».

Il Jobs act del governo guidato da Renzi è riuscito dove anche i governi di centrodestra avevano fallito: abolire per i nuovi assunti l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Per quasi due decenni la Confindustria e gli imprenditori tutti hanno affermato che senza quel vincolo le assunzioni avrebbero preso il volo. Invece non è accaduto. Serviva davvero cancellare l'articolo 18?
«Il mio punto di vista è che bisogna essere garantisti con le persone che lavorano. Perdere un posto è una cosa grave e se succede senza che ci sia responsabilità da parte del lavoratore è ancora più grave. Dopo di che il Jobs act ha fatto bene, il lavoro l'ha portato e a fronte di rapporti corretti e civili tra datore di lavoro e prestatore d'opera tutto sarebbe abbastanza equilibrato. Certo è che non si può escludere che qualche scellerato decida di mandare a casa la gente perché gli fa comodo, senza tenere conto che un dipendente con lo stipendio ci mangia e mantiene la famiglia».

L'inflazione bassa frena la crescita. Lo stesso presidente della Bce, Mario Draghi, ha detto che bisognerebbe fare una politica di salari più alti. È d'accordo?
«D'accordissimo. Con gli attuali salari una famiglia normale fa molta fatica ad andare avanti. La politica di salari più alti è giusta, a patto che poi la gente utilizzi una parte di quei soldi per comprare i prodotti. Così si innesta un circolo virtuoso».

Il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha proposto uno scambio tra salari più alti e maggiore produttività. È questa la via?
«Dipende. Nelle nostre aziende la produttività è già molto alta. Se ci sono posti dove c'è un gap esagerato, certamente si».

La Brexit è un fattore di rischio per la ripresa?
«Forse per gli inglesi. Per quanto riguarda noi direi di no».

In Italia il 2018 porta un'altra incognita: le elezioni politiche.
«Il vero problema è se non c'è nessuno che vince davvero. Sarebbe un dramma dover andare a votare di nuovo».

Dalle banche potrebbero arrivare nuove sorprese nel 2018?
«Voglio fare due considerazioni: primo, credo che i dissesti bancari che abbiamo avuto andavano gestiti molto meglio, soprattutto pensando ai piccoli risparmiatori. Poi però c'è da dire che in Italia cominciano ad esserci banche di importanza internazionale, forti, ben reputate. In questo senso abbiamo fatto un passo avanti enorme».

La fabbrica ad Arquata nelle zone terremotate, il restauro del Colosseo e altri progetti come i campi di calcetto in zone di forte disagio sociale, nell'hinterland napoletano ad esempio: il suo gruppo si sta distinguendo molto con investimenti di solidarietà. Esiste quindi anche un capitalismo etico in Italia oppure lei si considera un'anomalia?
«Certo che esiste. Soprattutto tra le imprese medie e piccole c'è tantissima gente che ha voglia di fare del bene. A ogni modo si può fare di più. E bisognerebbe farlo: occupandoci del sociale daremmo un grande sostegno al Paese senza per questo dover entrare in politica»

 
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