Il nodo commercio/ Brexit, l’accordo finale resta un’incognita

di Giulio Sapelli
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Sabato 9 Dicembre 2017, 01:08 - Ultimo aggiornamento: 10:31
I veri problemi dell’ordine internazionale, a differenza del passato, ora scaturiscono dalle crisi interne degli Stati più importanti nel sistema di pesi e influenze che vige oggi a livello mondiale. I più importanti Paesi rivelano, con una dimensione prima inesistente, questo nuovo approccio. La Brexit è un esempio lampante di questa mia teoria, che esemplifica il grado di interdipendenza oggi esistente nel capitalismo globalizzato. Chi poteva immaginarsi che il problema più rilevante del dopo Brexit sarebbe sgorgato dall’interno e non dall’esterno del Regno Unito?

L’incognita più minacciosa per Londra che ha abbandonato l’Europa, ora che il governo di Theresa May ha per il momento ottenuto un accordo-tregua con la Ue tutto sommato con una rapidità inattesa ma che su queste colonne era stata prevista, è oggi quella irlandese. Un’incognita che emerge come un nodo essenziale per il buon esito della trattativa conclusiva. Bruxelles è stata parte attiva del famoso accordo di pace denominato “Good Friday”, grazie al quale nel 1998 si raggiunse un’intesa storica tra Gran Bretagna, Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda.

Alla conclusione del primo round della trattiva sul divorzio Brexit, l’Irlanda del Nord dovrebbe continuare a far parte del mercato unico europeo e dell’unione doganale per evitare di ricreare un nuovo confine fisico con l’Irlanda, Stato membro dell’Unione Europea.
Il secondo tempo del confronto, il più difficile, rischia così di scavare un nuovo solco nella delicata questione irlandese. Tanto più che la signora May è ora al governo proprio con i radicali etnico-religiosi protestanti del Democratic Unionist party, i quali difendono a spada tratta l’appartenenza al Regno Unito dell’Irlanda del Nord considerando obbrobriosa qualsiasi ipotesi di alleanza e cooperazione con l’Irlanda, europeista. Insomma, diciamo la verità: pur di fronte all’ottimismo dell’accordo appena annunciato dal presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, l’esito finale della Brexit resta una incognita terribile.

Rischia infatti di confermare quelle tesi storiografiche molto agguerrite per cui la Brexit altro non ha fatto che confermare che l’entrata nell’Ue sia stato un tragico errore che ha continuato in tal modo a rinnovare il declino mondiale britannico: un declino che si era annunciato nel 1956 con la crisi di Suez, quando gli Usa sostituirono i britannici nell’alleanza con l’Egitto e in seguito nel 1963, quando il Regno Unito ritirò le sue truppe dal Golfo.
Se i britannici non creeranno rapidamente quell’anglosfera che dovrebbe reggersi su un nuovo trattato commerciale con gli Usa, tale da consentire alla stessa Londra un’alleanza privilegiata con la Cina, costituendo in tal modo un nodo geopolitico economico strategico mondiale, il declino inglese risulterebbe davvero definitivo. Si tratta di un grande disegno, tuttavia non paiono presenti in terra britannica le classi dirigenti in grado di perseguirlo: si tratta in realtà di un grande dramma che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.

La Gran Bretagna sia avvia a pagare sino in fondo l’errore compiuto abbandonando alla metà degli anni Settanta del Novecento l’Efta (l’Associazione europea di libero scambio, costituita nel 1959) e il rapporto privilegiato con le sue colonie per aderire politicamente, mai con la moneta, va ricordato, a un’Europa che non è stata in grado di vincere la sfida di accogliere nel suo seno la più importante nazione della civilizzazione occidentale.
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