Nicola Piovani: «La gente di Cerami, dolente come gli eroi»

Nicola Piovani: «La gente di Cerami, dolente come gli eroi»
di Mario Ajello
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Giovedì 12 Ottobre 2017, 00:12 - Ultimo aggiornamento: 13 Ottobre, 14:18
L’INTERVISTA
Un sodalizio umano, un tandem artistico, un lungo e vicendevole apprendistato di parole, musiche, immagini con o senza Roberto Benigni. Questo, e molto altro, è stato il rapporto tra lo scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami, scomparso quattro anni fa, e il compositore e musicista Nicola Piovani.

Maestro Piovani, Cerami era l’opposto dell’intellettuale snob. È stato un personaggio raro proprio per la sua capacità di connessione sentimentale con la vita e con le storie delle persone?
«Vincenzo Cerami, più che raro, era un artista unico, indefinibile. La sua connessione sentimentale con i personaggi che narrava era profonda, più forte ancora della connessione che aveva con le persone vere in carne ed ossa. Le persone le amava, ma i suoi personaggi li amava di più. Con lui ho imparato tante virtù sul nostro lavoro: per esempio ho imparato ad amare l’arte più che la cultura».

Era a suo modo un moralista, e nel caso: di che tipo?
«Non lo ritengo un moralista in senso proprio: narrava in terza persona personaggi che amava a prescindere, non c’era giudizio nella sua scrittura fosse per il cinema, per il teatro, per i libri di poesie o di racconti. Certo, suoi amati personaggi di riferimento erano molto spesso personaggi piccolo-borghesi, e come tali moralisti, qualunquisti, para-fascisti, e tanti “isti” ancora. Direi che il fondamento delle sue narrazioni era nel non fare graduatorie nella qualità dei sentimenti: “Il dolore di un negoziante per una cambiale in protesto è grande come il dolore di Achille sul corpo morto di Patroclo”».

Roma che cosa rappresentava per lui? E oggi come ci starebbe?
«Vincenzo non era romano al cento per cento: conosceva e amava Roma come me, ma aveva anche un occhio esterno, l’occhio in più di chi è nato a Roma da padre siciliano e madre pugliese, un’infanzia divisa fra l’Alberone e Ciampino. Oggi ci vivrebbe con la perplessità che lo accompagnava sempre, magari oggi sarebbe più perplesso di ieri. Oggi a Roma siamo quasi tutti molto perplessi, no?».

Come vi siete conosciuti?
«Avevo letto “Un borghese piccolo piccolo”, avevo in progetto un’opera lirica (che poi non si è mai fatta) e gli ho chiesto aiuto per un soggetto. Cominciammo a lavorare insieme a un libretto tratto dal suo bel romanzo “Amorosa presenza”. Da allora – parlo del 1973 – ci siamo frequentati o sentiti praticamente tutti i giorni. Abbiamo fondato insieme una compagnia teatrale – La Compagnia della Luna – che ancor oggi prosegue sui binari impostati con Cerami. È la compagnia che ha prodotto lo spettacolo a lui dedicato che presentiamo sabato prossimo al Teatro Vascello».

Qualche momento particolare trascorso con lui?
«Migliaia di momenti: molti indimenticabili, scambi di vedute, condivisioni di emozioni forti. Ma soprattutto ricordo i tempi che passavamo dietro le quinte, poco prima di entrare in scena insieme. Vigilavamo l’uno sull’altro – “io farei così, io affretterei lì, rallenterei qui, sottolineerei quel passaggio…” - mentre si sentiva il mormorio del pubblico che ci era venuto a vedere. Oggi che vado in scena senza il suo supporto, qualche volta dietro le quinte mi viene di rivolgermi a lui come stesse lì accanto alle corde del sipario. Lo guardo e gli chiedo consiglio, approvazione, su un dettaglio cambiato all’ultimo momento prima di andare in scena. A volte, mentre suono sul palco, si proietta una sua foto: la guardo, e il suo sorriso sornione mi dà la forza per suonare meglio».

Quando parlavate di musica lui che cosa diceva? E di libri o di arte?
«Parlavamo a tutto tondo: di Rossini e di Claudio Villa, di Verdi e di Garinei & Giovannini, di Campanile e di Umberto Eco. Lui ripeteva che la mia musica era sempre e comunque narrativa, anche in un trio da camera: “Hai fatto troppo cinema!”».

Avete mai litigato?
«Litigato certo no, abbiamo avuto scontri di vedute, a volte forti, ma che non hanno mai intaccato l’amicizia profonda. Lui era uno che diceva che nell’amicizia bisogna essere sempre leali. “In amore no, aggiungeva: in amore un pizzico di cinismo e di bugie fanno bene. Giusto un pizzico”».

Che cosa le raccontava di registi o attori, da Benigni a Sordi a tanti altri, con cui ha lavorato? 
«Con Roberto Benigni aveva stretto un sodalizio artistico forte, si completavano a vicenda. I loro due mondi poetici un po’ distanti fra loro, quando si incontravano, producevano una scintilla che moltiplicava la loro arte. E prendevano coraggio l’uno dall’altro: “La vita è bella” è secondo me, innanzitutto un gesto di coraggio».

Lei ha voluto rendergli un omaggio molto particolare. 
«Sì. Ho voluto produrre un spettacolo piccolo piccolo, in uno spazio raccolto, per poche persone alla volta, spettatori a un metro dagli attori, che assistono alla lettura delle gesta della piccola “gente”, quelle gesta che Vincenzo raccontava con amore struggente. Sentimenti giganteschi in animi minuscoli, maschere quotidiane anonime che patiscono quanto gli eroi che fanno la storia».
 
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