Quel baciamano liturgia mafiosa che umilia l’Italia

di Paolo Graldi
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Domenica 4 Giugno 2017, 00:46

«Baciamo le mani, Vossia»: è qui, nelle parole e nel gesto che le accompagna, che si racchiude la soggezione, la sottomissione, la riconoscenza del mafioso verso il boss. Qui si condensa il senso della vita del mafioso, il rispetto assoluto verso la gerarchia interna alla cosca, la disponibilità a compiere qualsiasi gesto venga ordinato.

Vale per Cosa Nostra, vale per la ’Ndrangheta. Oggi quel “baciamo le mani” ha perso gran parte del suo evocativo, si riduce quasi ad un modo di dire. Ma là dove resiste nel suo significato profondo ecco che si ha la plastica dimostrazione della forza del vincolo associativo criminale, insegnato ai bambini, esibito in privato e in pubblico.

Così, il baciamano di un paesano al boss di San Luca, paese dell’Aspromonte, con una tradizione malavitosa diffusa che si è tradotta in faide sanguinose tra famiglie in guerra perenne, raffigura il cemento “culturale” che lega i componenti delle ‘ndrine, guidate da codici di acciaio, forti di una omertà invincibile. 

Giuseppe Giorgi, 56 anni, ricercato da ventitrè anni con la prospettiva da passare i prossimi ventotto in carcere, si nascondeva a casa sua, come spesso accade ai latitanti che sanno muoversi solo nel loro stretto ambiente. Si rifugiava all’occorrenza in un angusto ambiente occultato da una botola, sotto il camino. Un classico.<HS9>E lì che i carabinieri, giunti a piedi, a piccoli gruppi e senza clamori, lo hanno scovato. Come da copione l’uomo, in maglietta e jeans, si è complimentato col colonnello Mucci, la “bestia nera” dei fuggiaschi della Locride. La sfida del boss che si nasconde e del carabiniere che lo rintraccia e lo ammanetta era finita pur tra le grida minacciose dei parenti che s’agitavano per casa giurando che non c’era nessuno, che si sbagliavano, che andassero via. 

Avviati all’esterno uno alla volta le forze dell’ordine non hanno potuto impedire che dalla piccola folla plaudente alcuni dei presenti potessero avvicinarsi a “u Capra”, riconosciuto broker della droga a largo raggio, per un gesto di affetto e di sottomissione, il baciamano appunto.
Condito con parole di esaltazione dell’innocenza, è ovvio. In quel fotogramma c’è tutto il potere del boss, di colui che dispone di capitali e che li distribuisce, che disegna e muove azioni criminali organizzate e beneficia complici e affiliati attraverso le regole feudali del signore padrone assoluto che dispone dei suoi sudditi. 

San Luca, raccontata da Corrado Alvaro (1931) in Gente d’Aspromonte, una lettura di straordinaria, dolorosa attualità: “la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”. L’ossequioso saluto al boss che viveva avvolto nella stretta omertà di tanti concittadini non mette in dubbio il comportamento dei carabinieri: non c’è stata nessuna concessione da parte dei militari dell’Arma ma semplicemente la scelta di non drammatizzare l’arresto spianando i mitra, incappucciando l’arrestato, forzando con inutili tensioni una situazione che non doveva prestare il fianco a provocazioni.

Lo stesso procuratore di Reggio Calabria De Raho ha tagliato corto: nessuna concessione dei carabinieri, nessuna debolezza dello Stato. Resta fermo e drammatico il dato ambientale, di luoghi circoscritti geograficamente verso i quali sembra impossibile radicare qualsiasi forma di legalità: la cultura mafiosa impregna ogni parte del tessuto sociale, qui non è stato neppure possibile trovare un candidato sindaco che avrebbe avuto, eletto, il compito di rappresentare le istituzioni. Nessuno si è fatto avanti in una terra nella quale, nel 2009, l’intera squadra di calcio locale è scesa in campo con un bracciale nero, il lutto per la morte dell’anziano patriarca Antonio Pelle, detto “Gambazza” arrestato pochi mesi prima dai carabinieri del Ros, valorosi titolari di arresti eccellenti tra latitanti ad alto tasso criminale. Baci al boss Giuseppe Di Stefano, preso nel 2008, centinaia di amici e sodali a salutare il boss Giovanni Tegano, all’uscita della questura, avviato al carcere. Mille episodi, compreso quello della processione della Madonna che a Oppido Mamertina si ferma in segno di omaggio dinanzi alla casa del boss locale, Mazzagatti, tuttora in carcere. <HS9>Una lunga lista di liturgie mafiose verso le quali, quando ha potuto e non sempre con la stessa determinazione, anche la Chiesa si è opposta; liturgie che resistono nei decenni e si nutrono di un rapporto di sudditanza con significativi strati di popolazione e questo perché l’economia locale è infiltrata, profondamente intrisa dei capitali derivanti al traffico della droga e dalla diffusione totale del rastrellamento minaccioso di denaro attraverso il “pizzo”, l’assicurazione “obbligatoria” offerta dai mafiosi, protezione pressoché irrinunciabile per le vittime.

Inchieste della magistratura, sequenze di catture di latitanti che sembravano invincibili grazie a magistrati dei quali Nicola Gratteri a buon diritto rappresenta il capofila hanno inferto duri colpi ad una organizzazione che nel tempo ha trovato nel narcotraffico un’espansione planetaria, con profitti che si calcola superino i cento miliardi di euro all’anno e intensi rapporti d’affari con i cartelli colombiani e messicani. 
La piaga resta vastissima e dagli stessi magistrati arrivano critiche verso l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione per un contrasto efficace, se non realisticamente risolutivo. 
Il baciamano al boss tirato fuori dalla sua tana per avviarlo alla pena in carcere non intacca la portata della operazione ma conferma, ancora una volta, che il vincolo omertoso con chi comanda la piramide del crimine è un macigno davvero difficile da rimuovere. 

Quando i bambini applaudono al passaggio del boss e lui sorride compiaciuto significa che anche il futuro, a San Luca e dintorno, ha l’amaro sapore del passato di sempre. 
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