L’italiano perduto sui banchi di Eton

L’italiano perduto sui banchi di Eton
di Marina Valensise
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Martedì 7 Marzo 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 8 Marzo, 17:41

Non parliamo solo di download, invece di riversare, di upload invece di caricare, dell’industria che torna hard, di smartphone e hi-tech che oramai hanno stravinto. Ora si insidia anche la minaccia di swipe, invece di strisciare, di scroll, invece di srotolare, di white economy e wellness tracking, per dire l’economia dell’assistenza ai malati e la relativa tracciabilità. E poi, quando usciamo dai digital media è tutto un rigoglio di stakeholder, storytelling, matchare, e adesso anche di on top, che però nella testa di chi lo usa non vuol dire in cima, bensì inoltre, e sopra…

LA SCELTA
All’ennesima provocazione dell’inglese straripante con inutile proliferare di termini neanche più tecnici, che incalzano per forza inerzia, o spesso solo per pigrizia, i loro corrispettivi italiani, Romolo P., macellaio da tre generazioni in un centro del frusinate, e lettore dei romanzi di Ian Fleming, prese con sua moglie Deborah una storica decisione. Kevin, il loro primogenito, amante del canottaggio e del clarinetto, avrebbe smesso di frequentare la scuola italiana per continuare gli studi in inglese.

Attenzione, però. Non in qualche liceo internazionale della capitale, esclusivo riparo per rampolli viziati. No. I genitori di Kevin avevano altre ambizioni. Per il loro figlio sognavano Eton. Volevano mandarlo nell’esclusivo collegio a 35 chilometri da Londra, fondato nel 1440 da Enrico VI e da allora fucina nei secoli d’una classe dirigente che annovera circa venti primi ministri, dal duca di Wellington a Winston Churchill al meno splendido David Cameron, grandi economisti come John Maynard Keynes, celebri scrittori come George Orwell, principi reali come William e Harry, e persino una spia come James Bond, personaggio letterario, certo, ma va bene uguale.

Così, con testarda tenacia, i due genitori indussero il figlio a perfezionarsi sin dai sette anni nella lingua di Shakespeare, con lezioni private, corsi estivi e intensivi, tante recite del “Sogno di una notte di mezz’estate”. Compiuti i dieci anni, lo instradarono per l’ ammissione all’esclusivo collegio, che previa retta annuale di 30 mila sterline accoglie circa 1300 allievi, di cui 73 borsisti, esentati al 100 per cento dalle spese di iscrizione, se meritevoli.

ECLETTISMO
Il piccolo Kevin aveva tutto per riuscire nell’impresa, fra l’altro al computer era pure uno smanettone, e infatti vi riuscì. I responsabili della selezione a Eton furono sensibili all’eclettismo dei suoi interessi, e soprattutto al clarinetto, che avrebbe cementato lo spirito di gruppo favorendo il suo l’inserimento fra gli allievi inglesi. Nonostante l’iniziale solitudine, gli scherzi feroci dei compagni, gli assalti notturni e le molte sbronze, per Kevin furono anni bellissimi. Musica, sport, canottaggio, concerti, tanto teatro. I temi in classe in cui doveva scrivere il diario di Lady Macbeth… l’orrenda regina sanguinaria. E poi la coreografia dei dormitori, le merende con gli scones, la divisa col frac a coda e il farfallino bianco e le magliette a righe per lo sport. Tutto splendido. Kevin, che era un ragazzino modello e di bocca buona, se la cavò benissimo. Senza badare troppo ai lazzi degli eccentrici figli di lord e di banchieri che parlavano con l’avocado in bocca, stava benissimo: certo, i compagni lo prendevano in giro per le dentali troppo sibilanti, ma ogni anno scendeva in Ciociaria perché andavano matti per la pasta alla gricia e per il Certamen Ciceronianum.

Strinse pure amicizia con un Salvatore, un compagno di Catania che suonava il violoncello, figlio del country manager, responsabile del corporate investment banking di una famosa banca internazionale. E finito il collegio, volle darsi a un anno sabbatico. Di iscriversi alla London Business School, come sognava il padre, non ne aveva voglia. Di studiare archeologia a Oxford (sin da piccolo era innamorato di Indiana Jones), aveva qualche remora. Fatto sta, che rientrato a casa dopo un periplo di sei mesi col violoncellista catanese nel Myanmar e nel Sud est Asiatico, prese il coraggio a due mani.

LA DECISIONE
«Papà, forse ti deluderò, ma ho deciso di fare il cuoco. In tutto il mondo sognano solo di mangiare come noi italiani. Ovunque vada, mi chiedono come si fa la gricia, l’abbacchio scottadito, i broccoli calati in padella. E io questo voglio fare: cucinare col mio amico Salvatore». «Ma Kevin, ti rendi conto a cuosa state rinunciando? Il mondo dei privileggi, l’élite internazzionale? Te ne vuoi andare a spignattà… Dopo tanta fatiga e tanti sagrifici?». «I know what you mean, papà, ma io il cuoco voglio fare, e voglio aprire un ristorante con Salvatore, per fare felici le persone, facendogli da mangiare».

Nonostante il padre, e le sue molte relazioni, Kevin, che era ancora più testardo di lui, ebbe non poche difficoltà a sostituire il tocco di Eton col tocco da cuoco. E pure Salvatore, il figlio del banchiere catanese, suo compagno a Eton. Le decine lettere che spedivano ai ristoranti italiani, per uno stage di apprendista, avevano in media tra i sette e i dodici refusi per riga e dunque cadevano nel vuoto. Così, i due Etoniani d’Italia dovettero aspettare altri nove mesi per essere presi a sbucciare piselli in un famoso ristorante di Acuto, e darsi finalmente alla loro passione….

3/fine

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