Anzitutto ha chiesto le rassicurazioni di Grillo per andare avanti, poi quelle dei Cinque Stelle e solo in terza battuta si è rivolta ai cittadini. Che invece avrebbe dovuto informare per primi, visto che da loro e non dal proprietario di una villa genovese o dall’erede di un imprenditore milanese deriva la legittimazione del suo potere.
Questa forma di scavallamento contiene la plateale ammissione di ciò che gli abitanti dell’Urbe ritengono un problema e lo vivono sulla propria pelle: ossia di non sentirsi accuditi né tranquillizzati né garantiti da chi guida il Campidoglio. Ed è concentrato su una logica - la ragion di partito - a loro estranea e per loro incontrollabile. Nonostante la sbandierata trasparenza.
L’altro nodo è quello che potremmo definire del familismo e della privatizzazione delle scelte. Non passa giorno in cui non emergano fattispecie di favori o di ipotetici benefici economici che riguardano l’entourage della Raggi. Si va dalle nomine e promozioni di familiari dei collaboratori del sindaco (il fratello di Raffaele Marra diventato capo del dipartimento comunale del turismo) ad aumenti di stipendio (quello di Salvatore Romeo è stato triplicato), fino a ipotetiche questioni sentimentali.
La Raggi riduce tutto questo a pettegolezzo («Basta con il gossip»), quando invece la morale della storia è che non ha vinto l’efficienza in questi sette mesi ma la prevalenza del rapporto personale unita all’invenzione di nemici inesistenti. Il vero avversario della giunta Raggi è la giunta Raggi. E se il sindaco si trova nei guai giudiziari, mentre cresce lo scontento generale, è a causa di errori auto-alimentati e di tutti quegli ostacoli che la Raggi e i suoi sodali hanno piazzato sul proprio cammino. Inciampando continuamente tra imperizia e irresponsabilità.
La polizza che ora la Raggi ha il dovere di rispettare riguarda quella che gli illuministi chiamavano «la pubblica felicità». E in fondo si tratta soltanto, ma forse è tutto, del diritto dei romani di avere un buon governo che ancora non c’è.
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