Familismo e paralisi/ Se l’obbedienza al partito viene prima di Roma

di Mario Ajello
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Sabato 4 Febbraio 2017, 00:02
Saranno i giudici a chiarire la consistenza, le motivazioni e le finalità delle due polizze assicurative che Salvatore Romeo sostiene di avere regalato a Virginia Raggi. E se lei sapesse o non sapesse di questo beneficio ricevuto, spetterà alla Procura doverlo accertare. Per ora il nocciolo della questione sta nella polizza - quella vera, quella più importante - che la Raggi ha sottoscritto con i romani. È una polizza sulla riuscita del mandato e quindi sulla vita della Capitale. L’unico metro di giudizio per valutare il patto stipulato è quello dell’efficienza dell’amministrazione in corso. E al momento, a giudicare dalla carenza di atti capaci di dare un segno di reale cambiamento, il piatto della giunta Raggi piange. È la catena degli errori politici che ha provocato la paralisi, e non altro. I nodi penalizzanti sono due. Il primo deriva da Re Beppe. Il quale sembra un sovrano che ha appoggiato lo spada sulla testa di una vassalla, delegandole un potere che egli non ha. Perciò la Raggi, ancora una volta in queste ore, ha ribaltato la gerarchia dei referenti e delle priorità di rapporto. 

Anzitutto ha chiesto le rassicurazioni di Grillo per andare avanti, poi quelle dei Cinque Stelle e solo in terza battuta si è rivolta ai cittadini. Che invece avrebbe dovuto informare per primi, visto che da loro e non dal proprietario di una villa genovese o dall’erede di un imprenditore milanese deriva la legittimazione del suo potere.
Questa forma di scavallamento contiene la plateale ammissione di ciò che gli abitanti dell’Urbe ritengono un problema e lo vivono sulla propria pelle: ossia di non sentirsi accuditi né tranquillizzati né garantiti da chi guida il Campidoglio. Ed è concentrato su una logica - la ragion di partito - a loro estranea e per loro incontrollabile. Nonostante la sbandierata trasparenza. 

L’altro nodo è quello che potremmo definire del familismo e della privatizzazione delle scelte. Non passa giorno in cui non emergano fattispecie di favori o di ipotetici benefici economici che riguardano l’entourage della Raggi. Si va dalle nomine e promozioni di familiari dei collaboratori del sindaco (il fratello di Raffaele Marra diventato capo del dipartimento comunale del turismo) ad aumenti di stipendio (quello di Salvatore Romeo è stato triplicato), fino a ipotetiche questioni sentimentali. 
La Raggi riduce tutto questo a pettegolezzo («Basta con il gossip»), quando invece la morale della storia è che non ha vinto l’efficienza in questi sette mesi ma la prevalenza del rapporto personale unita all’invenzione di nemici inesistenti. Il vero avversario della giunta Raggi è la giunta Raggi. E se il sindaco si trova nei guai giudiziari, mentre cresce lo scontento generale, è a causa di errori auto-alimentati e di tutti quegli ostacoli che la Raggi e i suoi sodali hanno piazzato sul proprio cammino. Inciampando continuamente tra imperizia e irresponsabilità. 
La polizza che ora la Raggi ha il dovere di rispettare riguarda quella che gli illuministi chiamavano «la pubblica felicità». E in fondo si tratta soltanto, ma forse è tutto, del diritto dei romani di avere un buon governo che ancora non c’è.
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