Unesco, i soldi finiscono in sede e superstipendi

Unesco, i soldi finiscono in sede e superstipendi
di Francesca Pierantozzi
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Martedì 27 Dicembre 2016, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 28 Dicembre, 12:35
PARIGI - «Garantire la solidarietà morale e intellettuale dell’umanità»: è una missione impossibile, o almeno tra le più complicate del pianeta, quella che i padri fondatori affidarono all’Unesco qualche mese dopo la fine della seconda guerra mondiale. L’idea era quella, lodevolissima, di evitarne una terza, mentre il mondo già si spaccava in due. Settant’anni dopo la terza guerra mondiale in effetti non c’è stata, ma l’Unesco, Agenzia delle Nazioni unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, più che il supremo garante della solidarietà planetaria, assomiglia tristemente a un gran carrozzone, con costi di funzionamento esorbitanti nonostante le riforme, programmi poco chiari, rapporti e consulenti che costano fino a un milione e mezzo di dollari (e 75mila dollari a pagina) la cui efficacia è spesso difficilmente dimostrabile. 

SUSSIDI PER TUTTI
I suoi circa duemila funzionari godono di un trattamento da far invidia alle migliori caste al potere in giro per il mondo. Beneficiano del cosiddetto regime «Noblemaire»: sono allineati sul più altro trattamento riservato a un funzionario pubblico al mondo. Conseguenza, anche se i salari sono congelati da anni, lo stipendio netto di base di un funzionario varia dai 5 ai 10 mila dollari al mese in base a anzianità e grado. A questo si sommano alcuni benefit: sussidi per coniuge e figli a carico (quasi 3 mila euro l’anno per consorte e per ogni figlio), le spese scolastiche (in media fino a 15, 20 mila euro l’anno a seconda dei paesi), le indennità linguistiche (circa 1900 euro l’anno per la prima lingua straniera, mille per la seconda), l’indennità per sede disagiata (fino a circa 1900 dollari al mese).

LA RELAZIONE
Le critiche si sprecano, le polemiche pure (ultima, quella sulla risoluzione sui luoghi sacri di Gerusalemme, indicati con i soli nomi arabi), nel 2013 la Corte dei conti francese ha prodotto una relazione impietosa sull’organizzazione, con costi enormi per un impatto irrilevante, c’è chi invita l’Unesco ad auto-iscriversi sulla sua famosa Lista dei patrimoni dell’umanità in pericolo, chi ritiene che dovrebbe chiudere battenti. «L’Unesco non è inutile, difende l’idea necessaria che la cultura e l’educazione siano un diritto degli esseri umani, ma non è efficace», dice Chloé Maurel, storica, studiosa del funzionamento delle istituzioni internazionali, autrice di “Una storia dell’Unesco” (edizioni l’Harmattan) e di molte analisi critiche sul funzionamento dell’Organizzazione. Nonostante un bilancio congelato dalla fine degli anni ’90, il risanamento è ancora lontano. Il bilancio ordinario, quello costituito dalle quote degli oltre 190 paesi membri, sarebbe di 330 milioni di dollari l’anno, il costo di un’Università di medie dimensioni, meno del bilancio della città di Parigi, la metà di quello dell’Unicef.

“Sarebbe”, perché dal 2011, anno in cui la Palestina è stata ammessa come membro, Stati Uniti e Israele non pagano più le loro quote, pari al 22 per cento del totale. Nel 2015 anche il Giappone ha chiuso il portafoglio: si lamenta dell’iscrizione nel Registro della memoria del massacro della cinese Nanchino da parte dell’esercito imperiale nel 1937. «L’Unesco non è un ente come un altro, è lo specchio delle relazioni tra i paesi del tutto mondo», riassume un alto funzionario che chiede di restare anonimo.

SEDE FARAONICA
Uno specchio che per riflettere costa molto caro. Quasi tutto il bilancio ordinario va in spese di funzionamento: la sede bellissima ma faraonica di Parigi (progettata tra l’altro da Le Corbusier, decorata da Picasso, Miro e Giacometti), gli oltre cinquanta uffici nel mondo, le spese di comunicazione (immensi), i duemila funzionari e poi la pletora di dipendenti a tempo determinato. Yves Courrier, ex alto funzionario dell’Organizzazione morto nel 2012, scrisse in un pamphlet del 2005 che molti funzionari dell’Unesco avevano uno stipendio più alto di quello dei ministri dei paesi d’origine. La maggior parte dei programmi sono ormai finanziati dai fondi “extra-bilancio” ovvero dai contributi volontari degli Stati e di enti privati, che hanno raggiunto e superato il bilancio “ordinario”.

Il problema è che chi mette i soldi ha anche il diritto di decidere come vanno spesi. «Per realizzare i programmi è necessario ricorrere a finanziamenti e risorse diverse, in particolare al partenariato con privati o stati – prosegue la stessa fonte all’Unesco – Questo aumenta la dipendenza dagli stati che contribuiscono di più». Per farsi un’idea, tra i maggiori contributori si contano ormai la Cina, il Qatar e in genere i paesi del Golfo, cosa che implica «particolari visioni del mondo, della difesa del patrimonio e della cultura». 

OBIETTIVI FLOP
L’anno prossimo finirà il secondo – per molti deludente - mandato della direttrice bulgara Irina Bokova. Si chiude con una missione non compiuta: i sei obiettivi del millennio decisi nel 2000 a Dakar, ovvero «l’educazione per tutti» entro il 2015 non sono stati raggiunti, soltanto un terzo dei 140 paesi coinvolti sono stati promossi. «Inutile girarci intorno, i risultati non sono buoni», dice Nicole Bella, esperta in statistica di analisi educative proprio all’Unesco. L’organizzazione rischia una fine ingloriosa, schiacciata dalla concorrenza di altri enti internazionali come Unicef o Ocse, e anche fondazioni private, tipo la Melinda e Bill Gates o la Rockfeller. La risposta il prossimo anno, quando sarà eletto il nuovo direttore generale: si tornerà agli intellettuali (il primo presidente fu il biologo e genetista Julian Huxley, fratello di Aldous, teorizzatore dell’evoluzione psicosociale e fondatore del Wwf) o si confermerà la linea di funzionari e burocrati? Agli Stati membri – e dunque al mondo - la risposta. 

 
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