I 1000 giorni di governo: la metamorfosi di Matteo, da rottamatore a zen

I 1000 giorni di governo: la metamorfosi di Matteo, da rottamatore a zen
di Mario Ajello
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Venerdì 18 Novembre 2016, 18:40 - Ultimo aggiornamento: 19 Novembre, 08:10

Scarno. Misurato. Non spettacolare. Addirittura «zen», come si è auto-definito. I mille giorni del governo, Renzi li ha festeggiati senza troppa enfasi. Senza indulgere nello storytelling, senza svolazzi, senza battute. Le slide, il catalogo delle cose fatte, la secchezza del riassunto - nella sala delle grandi occasioni a Palazzo Chigi - di ciò che è stata questa traversata di due anni e mezzo e di ciò che potrebbe essere il futuro dopo il referendum del 4 dicembre: «Quello sarà il giorno in cui gli italiani liberamente diranno se sono a favore del cambiamento oppure no».

Ecco, tra il Matteo narratore e il Matteo pratico, tra la fabula e il pragma, l'uomo dei mille giorni - «Soltanto Silvio Berlusconi e Bettino Craxi sono arrivati a questo traguardo» e lo hanno pure superato - sceglie di insistere sui dati di fatto. Ovviamente illustrando - nel chiaroscuro di questa esperienza cominciata dopo l'arrivo a Palazzo Chigi il 22 febbraio 2014 a bordo della Smart dell'amico deputato Ernesto Carbone e dopo una cavalcata trionfale e spietata comprensiva del proverbiale #enricostaisereno - le luci che è riuscito a impiantare nella Casa Italia piuttosto che le ombre di provvedimenti cruciali, a cominciare dalla riforma della giustizia, su cui non è riuscito, per dirla in politichese, a trovare la quadra. Nella ripartenza post-4 dicembre le lacune di adesso saranno colmate da nuove riforme?

Il referendum, in questi mille giorni, rappresenterà il turning point. E Renzi - che subito si è concesso la battuta: «Vedete, qui ci sono due bandiere, anche quella europea»: e infatti rieccola nel salone del governo - sembra avvicinarsi a quel momento di svolta o di stop con un atteggiamento di (almeno apparente) apertura. Del tipo: io ho fatto tutto questo, compreso qualche errore, molto altro si potrà fare ma ciò dipenderà da come gli italiani decidono nelle cabine referendarie. Il Matteo faber si dipinge come colui che ha smosso più di ogni altro (e giù le cifre dei posti di lavoro aumentati, dei consumi cresciuti, del Pil che è positivamente salito e dello Spread che può negativamente salire nel caso la riforma Boschi venisse affossata nelle urne) e che non nasconde, pur parlando della personalizzazione della campagna referendaria come qualcosa che sta alle spalle e da cui si sarebbe in parte emendato, che il 4 dicembre sarà il giorno del giudizio su di lui. Ovvero si deciderà sulla rottamazione, o meno del rottamatore.

GLI ESORDI
La parabola di questi due anni e mezzo cominciò appunto con l'epica del rottamatore dei poteri consolidati, dei soliti vizi italici tra cui la lagna, dei riti da concertazione vetero-sindacale, dei tabù come l'articolo 18, delle paludi come quelle nel mondo del lavoro («Il Jobs Act», ha detto ieri, «è la cosa che ha inciso di più e ha rimesso in moto l'occupazione, purtroppo solo al Nord»), della vecchiezza pachidermica della Rai il cui canone «lo abbiamo abbassato» ma su cui la svolta culturale non si è vista e le novità nei palinsesti hanno per lo più fatto flop almeno quelle più ambiziose come «Politics». Ecco, Renzi mette in conto il possibile esito negativo di questa sua stagione di governo ma senza dare l'impressione di voler drammatizzare la cosa e dunque cita i sondaggi negativi «ma si possono invertire in questi quindici giorni». E spiega da dove trae la fiducia: «Io girando l'Italia da Sud a Nord, dai comuni piccolissimi alle grandi città, da Lampedusa al Friuli, da Lecce a Savona, daAlghero ad Aosta, vedo un popolo che ha voglia di cambiare. Con buona pace degli istituti di sondaggio».

Nella conferenza stampa di ieri, Renzi ha mostrato tutta la consapevolezza che per non farsi affondare deve giocare a tutto campo nella conquista dei voti referendari che gli mancano. Ossia il catalogo delle cose fatte gli serve sia per convincere ormai in extremis gli elettori di centrodestra ancora incerti su come comportarsi il 4 dicembre: e via allora con «abbiamo abbassato tutte le tasse, dall'Imu alla Tasi e via dicendo». Sia per parlare al grande popolo di mezzo, che sta di qua, di là e dappertutto e dunque: «Noi siamo quelli che abbiamo trasformato Pompei da simbolo dell'Italia che crollava a simbolo dell'Italia che riparte» e «noi siamo quelli che abbiamo realizzato la prima opera di redistribuzione in favore del ceto medio tramite gli ottanta euro che abbiamo messo nelle tasche degli italiani». Ma forse, la celebrazione dei mille giorni gli è servita un po' di più per mobilitare sperabilmente gli elettori di centrosinistra stanchi o scettici. «Le leggi che più mi stanno a cuore? Quelle da boy scout. Quelle sociali e quelle culturali». E comincia a parlare di biblioteche, ricordando che da sindaco di Firenze - «Io arrivai a Palazzo Chigi che ero ancora sindaco della mia città» - ne raddoppiò gli spazi. Mentre prima ha elogiato la legge sulle unioni civili, sull'autismo, sulla cooperazione. Per non dire della riforma della scuola: «Ci abbiamo messo tre miliardi di euro e siamo riusciti a far arrabbiare tutti. Evidentemente qualcosa non ha funzionato». E non può dire il premier-faber di aver mantenuto la promessa, spericolata, che suonò così: «Faremo una legge al mese». Quello che s'è fatto s'è fatto. E ora Renzi sta bene attento a non dare l'impressione che la vittoria del No significhi la fine del mondo. Ma soltanto «la sopravvivenza del Cnel, dei rimborsi ai consiglieri regionali, delle indennità al vice-questore aggiunto del Senato».

CANZONI
«Mille giorni di me e di me», canta Claudio Baglioni. Renzi aggiunge a questa canzone quella di Lucio Battisti: «Al governo che cosa accadrà dopo il 4 dicembre? Lo scopriremo solo vivendo». Il pregresso - «Noi dicemmo all'inizio: non vogliamo fare la fine della Grecia e vogliamo fare meglio della Germania. Ora dico che andiamo ancora piano ma ci siamo rimessi in cammino» - serve come trampolino per altre evoluzioni. E in questo pregresso non può mancare ovviamente l'Italicum. Che nel bilancio generale finisce implicitamente nel reparto delle semi-negatività o comunque dei problemi: «Noi saremmo quelli della deriva autoritaria? Ma se la legge elettorale non c'è più!». Tutto il resto - e sarebbe potuto essere di più o essere fatto meglio ma anche di meno e a questo punto sarebbero guai insormontabili - invece c'è. Chissà se basterà, tra quindici giorni, per dare altri mille giorni al rottamatore che non vuole subire la nemesi.

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