Rischio decadenza/La strategia autodistruttiva sugli italiani nel mondo

di Romano Prodi
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Domenica 30 Ottobre 2016, 00:05
Nei mesi scorsi la nostra attenzione si è giustamente concentrata sui tragici problemi dei migranti che arrivano dalla Libia per dirigersi verso il resto dell’Europa e sulla grettezza della politica europea. Questa doverosa priorità non ci deve fare però diminuire la necessaria attenzione sugli enormi cambiamenti dei movimenti demografici tradizionali e specifici dell’Italia.
Prima di tutto i nostri emigranti: dal 2006 al 2015 gli italiani residenti all’estero sono passati da tre milioni e centomila del 2006 a oltre quattro milioni e seicentomila del 2015. Sono aumentati di quasi il 50% in dieci anni! Il totale dei nostri emigrati equivale quasi al numero degli immigrati in Italia e il flusso verso l’estero è ormai costantemente superiore all’arrivo in Italia. Questo dato, che riguarda un paese in cui la popolazione attiva cala di 300.000 unità all’anno, è di per se stesso un impressionante segnale d’allarme anche perché, leggendo i dati dei paesi verso cui emigrano, il numero di coloro che lasciano l’Italia è almeno il doppio di quello che dicono le nostre statistiche ufficiali. 
Gli italiani emigrati solo in Germania nel 2014 sono stati oltre settantamila, dopo polacchi, rumeni e bulgari ma prima di tutti gli altri paesi europei. L’allarme desta maggiore preoccupazione quando si esamina la diversa qualità dei due flussi migratori. Oltre il 60% dei nostri emigranti è infatti costituita da diplomati e laureati.

Sono medici, infermieri, ricercatori, insegnanti e professionisti che progressivamente hanno superato in numero la tradizionale emigrazione di braccianti, cuochi o camerieri. Sono decine di miliardi di euro spesi nella formazione di risorse umane di livello elevato che portano all’estero i frutti di questa loro preparazione.
In Italia, invece, arrivano quasi esclusivamente lavoratori a basso livello di specializzazione. Negli ultimi anni, la prevalenza assoluta è dovuta ai ricongiungimenti familiari o a coloro che arrivano per ricoprire i ruoli che gli italiani hanno sostanzialmente abbandonato, come l’assistenza alle persone anziane o non autosufficienti. Tutto questo spiega perché l’immigrazione degli ultimi anni sia in maggioranza femminile.

Un dato più positivo viene dalla considerazione che 550.000 imprese (oltre il 9% di quelle operanti in Italia) sono condotte da soggetti nati all’estero. Tuttavia questo dato statisticamente positivo viene ridimensionato dal fatto che la quasi totalità di queste imprese opera nel piccolo commercio, nella ristorazione, nell’edilizia e nei servizi più elementari. Negli ultimi anni dobbiamo aggiungere a questi numeri quello dei migranti che arrivano con i barconi perché spinti dalla guerra o dalla fame ma non certo dalla forza di attrazione del nostro paese che vogliono abbandonare al più presto, anche perché, mentre siamo esemplari nell’accoglienza, non siamo nemmeno lontanamente organizzati per aiutarli nel percorso scolastico o lavorativo e nemmeno nell’apprendimento sistematico della lingua italiana.

Questi fenomeni vengono naturalmente accompagnati da un mutamento di attitudine delle nuove leve degli italiani. Non solo i neolaureati o neodiplomati vedono sempre di più il loro futuro all’estero ma le famiglie che possono sostenerne la spesa tendono ad accompagnarli oltre confine anche per compiere il percorso universitario. I ragazzi del sud, a loro volta, non solo hanno ripreso il loro tradizionale trasferimento verso il nord in cerca di occupazione ma oggi tendono sempre più a trasferirsi anche per gli studi, nella speranza che questo accresca le prospettive di un lavoro futuro in Italia o all’estero.

Sommando tutti questi dati siamo costretti a concludere che l’Italia sta in pratica costruendo la strategia autodistruttiva di collocarsi fra i paesi a specializzazione medio-bassa della propria forza-lavoro, contribuendo all’elevazione della qualità del lavoro di paesi, come la Germania, che fanno fronte al futuro crollo della popolazione con una strategia di immigrazione qualificata e di qualificazione di coloro che sono già arrivati.
Questi sono i dati di fatto. Ad essi vorrei aggiungere due esperienze personali che certo non sono statisticamente rilevanti ma che mi sembrano tuttavia profondamente significative. La prima è che in questi giorni a Bologna, che pure non è in una situazione di boom economico, le imprese della meccanica strumentale non trovano la mano d’opera specializzata di cui hanno bisogno. E si tratta di parecchie centinaia di posti di lavoro.

La seconda riflessione mi è nata parlando con alcuni sindaci della pianura padana che mi hanno spiegato come i figli più in gamba della seconda generazione di immigrati (parlo di quelli ben inseriti e perfettamente fluenti in Italiano) hanno cominciato a loro volta ad emigrare. Verso la Germania, la Gran Bretagna ed il Canada. Mi si può naturalmente obiettare che essi, con questa scelta, si comportano da perfetti italiani. Forse è vero ma, nello stesso tempo, è il segnale del modo perverso con cui stiamo preparando le nostre risorse umane e di come le stiamo utilizzando. Anche tra gli immigrati i migliori se ne vanno. Quando cominceremo a capire che solo le buone risorse umane possono fare invertire questa pericolosa spirale di decadenza in cui ci troviamo?
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