Dario Fo, giullare sovversivo a teatro ma conformista in politica

di Mario Ajello
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Venerdì 14 Ottobre 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 14:01
Era animato da una sorta di furia civile. E quando questa sua forza non si faceva indebolire dall’eccesso di retorica, e da qualche posa da agit prop, Dario Fo diventava una macchina scenica irrefrenabile nello sberleffo. E riusciva a creare quel miracolo assai poco italiano, ma molto suo, di portare il teatro a livello popolare. Anzi, popolaresco. Come avevano fatto, in un passato lontano, i suoi maestri ideali, da Angelo Beolco detto Ruzante a Teofilo Folengo detto Merlin Cocai, dai maccheronici al Cecco Angiolieri di «S’io fossi foco» e Fo era un artista totale - regista, scenografo, scrittore, pittore, marionetta senza fili, cantante a modo suo con «Ho visto un re» insieme a Enzo Jannacci - acceso dalla fiamma sacra del palco. E’ stato un guitto e un istrione, alto e spilungone, autosmontabile e insieme ricomponibile: sembrava fatto di gomma. Almeno quando non si irrigidiva nella sua ossessione militante da sovversivo narcisista, pronto a cavalcare ogni Causa e qui rovesciava il suo anti-conformismo teatrale in un politicamente corretto sempre al passo con i tempi e dunque perfetto per attirare l’applauso. 

LA RIVOLUZIONE
La rivoluzione di Fo, lunga quasi 90 perché deve essere stato attore nelle sue contrade originarie del Lago Maggiore anche prima di scoprire di esserlo, è stata quella di reinventare la commedia dell’arte come un grande minestrone linguistico alto-basso, vecchio-nuovo, fatto di dialetti e di idiomi onomatopeici (il suo grammelot) e come una palestra di carnalità (gli si muovevano pure il naso, pure le orecchie, e la saliva che impastava il suo lessico era parte di questo grande teatro) concentrata, ma il recipiente sembrava non bastare mai, in un corpo solo. Il vero sovversivo è stato questo. E quando Fo, che è stato a sua volta un «Mistero buffo», si lanciava nel suo numero medievale in cui racconta e mima storie di frati e di contadini, vicende materiali e carnali, scene di maiali e truogoli, «el pursèl in tel smerdasso», c’era davvero da godere e da ridere in questo carnevale dell’intelligenza ludens. Costruito con gigioneria terrigna, e come impastato di fango, polenta e letame in cui Darione faceva cadere dentro un parroco o un rustico. L’altro sovversivo, il Fo politico che spesso sormontava il guitto tromboneggiando, è stato così dipinto da Montanelli e non ci sarebbe da aggiungere niente a queste parole di Indro scritte a proposito del «Fanfani rapito».

«Dario Fo, poeta di corte dell’ultra-sinistra, flagella nella sua ultima fatica teatrale il senatore Amintore Fanfani. I sarcasmi più grevi hanno però come bersaglio il metraggio del notabile democristiano che, come tutti sanno, non è quello di un granatiere. Toulouse-Lautrec, che per gli stessi dovette per tutta la vita subire analoghe canzonature, disse una volta, giocando sulla lunghezza del suo doppio casato: “Ho la statura del mio nome”. Non sappiamo se questo discorso si possa applicare a Fanfani. Certo, si applica a Fo». 
Spietato Montanelli. A cui però, e qui esagerava, non andava molto a genio neppure il Fo grande comico da Premio Nobel. Il quale all’insegna del «riso è sacro» era inimitabile (Paolo Rossi ci prova, ma Fo resta Fo) nell’affabulazione con ogni forma di mimica e di vocalità e nelle scorribande tra le caravelle di Cristoforo Colombo e i vagabondaggi de «Lu santo jullare Francesco d’Assisi», ma quando bloccava la sua macchina narrativa per spigare la rava ideologica e la fava sociale del Medioevo l’effetto che produceva era quello che si ha quando qualcuno si ferma a metà barzelletta per spiegare il contesto storico e politico rinviando così la risata e indebolendola. 

LA COPPIA
L’unione artistica con Franca Rame, sposata nel 1954, ha accentuato l’aspetto protestatario e militante di questo grande genio insignito del Nobel nel 1997 e autore di commedie celebri («Gli arcangeli non giocano a flipper», «Chi ruba un piede è fortunato in amore», «Settimo, ruba un po’ di meno»), dell’esperimento di satira brechtiana «Isabella, tre caravelle e un cacciaballe» e via così con titoli che hanno fatto epoca come «Morte accidentale di un anarchico (sul caso Pinelli). Anti-clericalismo contenente qualche forma di religiosità («Io sono ateo ma forse Dio mi sorprenderà») e operaismo quando non si poteva non essere tali.

E comunque, il fattaccio è datato 1962. Fo e Rame vengono chiamati a condurre Canzonissima nella Rai democristiana. Ma una gag sulla scarsa sicurezza nelle fabbriche fa scattare la censura («Voi create disordine», gli disse Ettore Bernabei e loro sbatterono la porta e andarono via) che poi sarebbe diventata parte della loro meritata fortuna. E quando gli Stati Uniti avrebbe rifiutato il visto per un tour a lui e a Franca, la consacrazione fu totale: con tanto di intellettuali americani che insorsero in loro difesa. Molto più tardi sarebbe arrivato il premio dell’accademia svedese. A proposito del quale Fo ripeteva spesso: «Il popolo italiano, a Milano e ovunque, mi ha sommerso di gioia. Le autorità e la cultura ufficiale invece, a parte qualche telegramma formale, hanno accolto il mio Nobel nel più totale disinteresse. Perché io sono sempre stato una persona controcorrente». Di sicuro Fo ha diviso l’Italia, stando bene attento però ad accasarsi nella parte più larga. 
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