Sylvia, l’amore selvaggio di Leonard Michaels

Sylvia, l’amore selvaggio di Leonard Michaels
di Luca Ricci
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Sabato 1 Ottobre 2016, 10:03 - Ultimo aggiornamento: 3 Ottobre, 21:17
“Sylvia” (Adelphi, pag. 129, 16,00 €) di Leonard Michaels racconta del suicidio della prima moglie dello scrittore nel Greenwich Village agli inizi degli anni sessanta, cioè nel periodo in cui “Elvis Presley e Allen Ginsberg erano i re del sentimento, e la parola AMA risuonava come un proclama con la forza di UCCIDI” e “attraverso le finestre del soggiorno si sentiva la gente camminare in un carnevale demente, urlando, attaccando briga, assetata di cattiveria”. “Sylvia” E’ una narrazione ibrida, totalmente autobiografica e al contempo perfettamente verosimile (e spendibile) come fiction- i cui lacerti di diario disseminati nel testo (si va dal dicembre 1960 all’agosto 1963) rappresentano il punto di contatto più evidente tra memoir e romanzo-, ed è con ogni evidenza la storia classica di un amour fou.
 
Come inizia una storia d’amore, qualunque storia d’amore? Per caso, e in “Sylvia” la bizzarra casualità degli eventi è resa in modo spietato. Tornato a New York dopo un infruttuoso corso post universitario a Berkeley (ma con una famiglia presente e protettiva alle spalle), Michaels va a trovare una vecchia amica nel Village, la quale gli presenta una ragazza minuta, dai lunghi capelli bruni e l’aspetto egizio, che si stira languida sul divano e non smette di guardarlo: “Il dubbio su che cosa fare della mia vita fu risolto per i quattro anni successivi”. Come a dire che l’amore può diventare una vera e propria occupazione a tempo pieno, con tutto ciò che ne consegue: incombenze e grattacapi.
 
In quel saggio concentrato sul disturbo paranoide della personalità (saggio inconsapevole, perché scritto quasi un secolo prima delle scoperte di Freud) che è “Il cuore rivelatore” di Edgar Allan Poe, il protagonista si fissa senza una motivazione apparente su un dettaglio di quella che finirà per essere la propria vittima, e cioè su un singolo occhio che viene definito maligno e d’avvoltoio: nient’altro conta se non quel dettaglio, che a poco a poco fagocita tutta la realtà circostante, diventando poi l’assurdo movente di un omicidio. Allo stesso modo Sylvia si fissa col proprio naso, in particolar modo con la sua lunghezza (fantastica di viaggi in Svizzera per sottoporsi a interventi di chirurgia plastica), per giustificare la sua paranoia di sentirsi costantemente brutta, inadeguata rispetto ai parametri estetici apprezzati da Michaels.
 
Due che si amano sono ossessionati da una sola idea: amarsi di meno. Ed è soprattutto Sylvia a cadere in una spirale senza fine di gelosie e sospetti. Aiutata dal continuo consumo di droga- il clima lisergico dei primi sessanta permea l’intera narrazione, un misto sovraeccitato di jazz e beatnik-, Sylvia comincia a considerare alla stregua di un tradimento perfino i primi, impacciati tentativi letterari di lui. Appena Michaels si ritira nella sua stanzetta la cui finestrella guarda in direzione del fiume Hudson e dell’Upper West Side, appena lei sente lui iniziare a battere a macchina, ecco che la collera prende il sopravvento: la rabbia irrazionale di una donna abbandonata a letto, trascurata nel momento intimo e cruciale della notte.   
 
Nonostante tutto i due si sposano, nella consapevolezza che la loro infelicità non è diversa dall’infelicità di tutte le coppie che decidono di non mollare. Chi sceglie di stare insieme, chi persevera, chi s’impunta, come in un destino comune a tutti e già scritto per tutti, si condanna alla tortura reciproca: “Ogni coppia, ogni matrimonio, erano malati. Quest’idea, come un salasso, mi purgava. Ero infelicemente normale, ero normalmente infelice”. Sylvia però non si accontenta, ed è determinata a regalare ai due un finale tragico. Ci riuscirà, dicendo che da una storia d’amore raramente si esce illesi e rendendo questo memoir in forma di racconto perfetto per una giornata soleggiata d’inizio autunno.
 
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