Commissione Ue/Le contraddizioni di Juncker sulla flessibilità

di Giulio Sapelli
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Giovedì 15 Settembre 2016, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 00:16
Il discorso del presidente Jean-Claude Juncker al Parlamento europeo rimarrà esemplare nella storia dello sgretolamento dell’Unione iniziato con la mortificazione economica della Grecia e culminato con la Brexit e i muri eretti contro i migranti. Juncker ha dato una dimostrazione plastica dell’inadeguatezza della tecnocrazia “mista” europea. Mista perché affonda le sue radici nella culture politiche nazionali e nel clientelismo che governa la loro ascesa ai vertici di Bruxelles.

E nel contempo cerca una legittimazione algoritmica neutrale neo-ordoliberista. Ciò spiega perché Juncker rappresenta l’epifenomeno più preclaro del gioco di specchi che questa tecnostruttura mista continuamente crea.
Che cosa vuol dire, per esempio, che «la stabilità non è flessibile»? Non vuole dire nulla, oppure tutto e il contrario di tutto. È la consolidata tecnica di mediazione di un mondo che probabilmente per troppo tempo ha introiettato la cultura dei grandi partiti di centro. Ma il centro politico europeo sta franando perché questi non sono più tempi di mediazione: i migranti non attendono e sempre più premono alle frontiere, e protestano nei centri cittadini intimorendo anzitutto le classi medie a basso reddito. E dunque, è bene che Juncker sappia che i cosiddetti populismi che egli evoca quale minaccia contro i riottosi alle politiche di austerità si possono combattere solo eliminando, politicamente s’intende, i tanti come lui che dall’alto della cuspide tecnocratica minano quotidianamente le economie del Sud Europa non socialmente omologabili al dominante modello tedesco.

Juncker promette di aumentare gli investimenti straordinari attesi da anni, e ciò è encomiabile; ma è ormai difficile accordargli una briciola di credito: troppe parole, finora, e ben pochi fatti. Un cambiamento delle politiche pubbliche europee è ovviamente essenziale, ma per implementare questo cambiamento occorre anzitutto cambiare alla radice la politica economica europea. E tale radicale cambiamento non sembra all’orizzonte.

La Bce ha fatto quanto poteva con il suo Qe e sul fronte dei tassi si prepara a sostare a lungo sulla linea dello zero. Sarebbe già un gran risultato se decidesse di imitare la Federal Reserve non appena questa decidesse di mettere mano ai tassi americani. Ma probabilmente non accadrà, viste le assai diverse acque entro le quali naviga l’economia europea. E ciò aumenta le responsabilità dei governi nazionali e della Commissione europea: da loro ci si aspetterebbe maggiore lucidità e puntualità nell’adozione delle riforme che tanto auspicano i cittadini e i mercati. Per non dire del Parlamento europeo, una struttura immensa e costosissima che non decide nulla e lascia i destini dell’Unione nelle mani di una burocrazia autoreferenziale, quando non eterodiretta, la cui principale occupazione sembra essere piantare paletti nei bilanci degli Stati o fissare la lunghezza delle banane insieme al diametro dei piselli e delle fragole. Di fronte a tanta inanità, viene persino il sospetto che certi sussulti d’orgoglio - come l’obbligo imposto dalla Commissione al colosso Apple di versare nelle casse di Dublino 13 miliardi di tasse non corrisposte - abbiano finalità di tutt’altro segno rispetto a quanto ufficialmente dichiarato.
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