Alla Ue serve concretezza più che utopie

di Marco Gervasoni
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Lunedì 22 Agosto 2016, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 00:07
I simboli non si discutono, tanto più che l’Europa di miti contemporanei ne ha pochi. Le figure eroiche neanche. Come non ammirare infatti, anche per il loro contributo dopo la guerra, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, gli autori del Manifesto di Ventotene, di cui Eugenio Colorni scrisse la prefazione? E come non riconoscere la grandezza di Luigi Einaudi, che con i suoi scritti fu loro diretta ispirazione? E come non essere orgogliosi del contributo ideale e culturale, prima ancora che politico, fornito dal nostro Paese al cuore fondamentale della unità europea?
Chiarito tutto questo - che il Manifesto è una sorta di monumento - è bene essere altrettanto schietti nel raccomandare di lasciarlo riposare in pace. E di non nutrire nostalgia per un programma, quello steso da Spinelli e Rossi, la cui mancata applicazione sarebbe, secondo alcuni, all’origine di tutti i mali dell’Europa. Quel testo non fu seguito semplicemente perché era impossibile metterlo in pratica. Era un’utopia, ma il XX secolo ci ha insegnato a diffidare dai progetti utopici. Era imbevuto da un forte volontarismo politico, onnipresente nell’ex comunista Spinelli.

Una sorta di giacobinismo che negava, o relegava nel passato, il dato della nazione, e lasciava alla politica il compito di forzare la storia verso gli “Stati Uniti d’Europa”. Come del resto scrisse scherzosamente tempo dopo Spinelli, che non riteneva quel suo scritto così fondamentale, esso era imbevuto di “leninismo”.

Ma siamo poi sicuri che lo spirito di Ventotene non sia stato ereditato dai costruttori dell’Unione europea? La sua architettura dirigistica, affidata nelle mani della tecnocrazia soprattutto a partire dal 1992, non è forse il frutto della convinzione, ben presente nel Manifesto, che i popoli non sappiano bene dove andare e che debbano essere le élite a guidarli? In fondo la tecnocrazia non è che il volto di una politica che ha perso legittimità e rappresentanza. La storia reale, e non quella sognata da chi è convinto di sapere dove vada il progresso, ha dimostrato che il sentimento nazionale non appartiene al passato; sia pure trasformata, è più alla patria e meno a un’astratta entità a cui i cittadini continuano a guardare.

Finché l’integrazione europea ha assicurato e incrementato il benessere, gli europei l’hanno accolta e le hanno ceduto quote di sovranità. Quando però questo scambio politico si è indebolito, molti di loro sono ritornati al vecchio, limitato, ma rassicurante, mondo della nazione. Che è quello in cui si sentono a casa gli elettori cosiddetti “populisti”, di destra e di sinistra: Le Pen sul “nero” e Corbyn sul “rosso”, entrambi rivogliono indietro lo Stato nazione. Quanti poi prendono a pretesto il Manifesto per chiedere più integrazione, sappiano che essa significherebbe, come propone il presidente della Bundesbank, un comune budget europeo controllato unicamente dal centro. Altro che flessibilità!

Se proprio dobbiamo tornare a figure storiche a cui ispirarsi, allora meglio Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, e soprattutto il francese Robert Schuman. Rispetto all’approccio giacobino e volontaristico, destinato a sfociare nella tecnocrazia non potendo (per fortuna) farsi dittatura, Schuman e i “padri” degli anni Cinquanta ci offrono un altro modello: la gradualità, una visione immersa in una storia lunga, necessariamente giudaico-cristiana, la consapevolezza che la nazione non si può cancellare con un tratto di penna, e soprattutto la continua ricerca della legittimità dell’agire politico.
 
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