Il senso dello strappo/Il messaggio alla Merkel e la fine degli equivoci

di Virman Cusenza
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Sabato 25 Giugno 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 11:42
Fine di un lungo equivoco. La Gran Bretagna non è affatto uscita dall’Europa. Non ci è mai entrata. Sarebbe sbagliato perciò provare sentimenti di lutto. Semmai, una eccitazione amara, unita a un moto di riscatto. L’addio britannico magari aiuterà quel popolo a riflettere sul suo futuro, a ripensare le furbizie di chi aveva deciso di stare con un piede in un semi-paradiso fiscale, approfittando delle concessioni europee, e con l’altro sul Continente, indossando una casacca che solo idealmente la facesse individuare come parte di una Europa che nel frattempo non si è costruita come loro e noi avremmo voluto. 
Ma è difficile non vedere in questo divorzio all’inglese soprattutto un chiaro messaggio alla Merkel. Un autentico warning a beneficio di tutti i cittadini europei: l’Europa non merita di stare sotto il tallone tedesco e di vivere con regole puramente contabili dettate da ragionieri made in Germany. Specialmente in questo momento storico in cui la società e l’economia europee hanno bisogno di ossigeno e non di accanimenti terapeutici all’insegna dell’eterna austerity. Perché tra le poche certezze di questa complicata fase c’è quella di una Unione europea oppressa dal binomio Olanda-Germania. 

Insomma, la lezione appena arrivata da un popolo che tutti rispettiamo per aver dato prova di coraggio in stagioni non troppo lontane (l’ultima proprio con la Germania allora hitleriana) è questa: meglio la libertà, pur pagando costi molto alti, che restare in un contesto egemonizzato da Berlino. 

Nemmeno un anno fa temevamo cataclismi con la Grexit ma ecco una dirompente Brexit dal peso centuplicato. Certo, sin dall’inizio Londra non ha scommesso sull’Europa decidendo poi di restarsene con la sua sterlina quando gli altri 15 Paesi, diventati troppo presto 25, hanno deciso di adottare l’euro. Un sentimento diffuso, tranne che tra i fortunati della upper class o della generazione Erasmus, era ostile a Bruxelles vista come un equivoco con il solito pragmatismo anglosassone. Euroscettici più che eurocritici, hanno sempre preso più di quanto potessero dare. Per Londra l’Europa più che matrigna è stata solo uno specchio in cui non si è riconosciuta con le stesse fattezze. 
 
Nel 1975 il Regno Unito aveva scelto l’Unione, proprio con un referendum simile a quello di giovedì scorso. Ma senza mai sciogliere fino in fondo il vero nodo di un’adesione chiara e convinta: dentro o fuori. Finalmente quel momento è arrivato ed è perciò giusto che chi ha promosso il referendum, non rendendosi conto di quanto catastrofica potesse risultare oggi per la Gran Bretagna quella scelta, si sia fatto da parte. Era il minimo. David Cameron, di cui sono almeno apprezzabili la tempestività e lo stile con cui ha annunciato le dimissioni ad urne ancora calde, ha perso la sua scommessa per essere rimasto prigioniero di calcoli politici. Ossia, per il tentativo più che mai fallito di fermare l’emorragia di consensi alla sua destra, causata dagli indipendentisti di Farage, ha cercato di flettere al massimo l’asticella europea. Ma questa si è spezzata, disarcionandolo.
C’è tuttavia, paradossalmente, da ringraziarlo. Questo voto rafforza chi non vuole più stare dentro un’Europa a trazione filotedesca. E mette tutti di fronte ad un’evidenza sintetizzabile così: la Ue non va, per salvarla bisogna rifondarla. Non con gli atti di fede ma con la parità di condizioni. Con la democrazia dei popoli e non con l’oligarchia di qualche tecnocrate alleato di banchieri. Altrimenti, meglio rinunciare ad ambizioni che, ormai diventate lussi, non ci si può più permettere. Il tempo degli equivoci è finito.
 
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