Il premier Renzi: «Si vota il 28 febbraio 2018. Il referendum? Chi vota no vuole solo l'inciucio»

Il premier Renzi: «Si vota il 28 febbraio 2018. Il referendum? Chi vota no vuole solo l'inciucio»
di Barbara Jerkov
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Domenica 22 Maggio 2016, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 25 Maggio, 12:35

Presidente Matteo Renzi, oggi prende il via la mobilitazione del Pd per il referendum sulle riforme costituzionali. Ma sono proprio le riforme che lei voleva? La ministra Elena Boschi l’altro giorno ha ammesso che si è dovuto scendere a compromessi per portare il ddl in porto. Non è che a ottobre andrà a votare turandosi il naso pure lei? Che cosa avrebbe voluto di diverso?
«Ovvio che non è la riforma perfetta. Anche perché la riforma perfetta non esiste neanche nei manuali di diritto costituzionale. Io avrei preferito togliere ulteriori poteri alle Regioni o aumentare il numero dei sindaci nel Senato delle autonomie. Ma è una riforma strepitosa e cruciale».

Spieghi perché a chi magari non è convinto.
«Perché supera il bicameralismo paritario, elimina la doppia fiducia e la navetta parlamentare, riduce i costi e i posti della politica, garantisce i diritti delle opposizioni e allo stesso tempo aumenta la stabilità istituzionale. Un passo in avanti storico per le istituzioni italiane. Altro che turarsi il naso: vado a votare con entusiasmo il sì più convinto. Chi vota no si tiene il sistema di oggi, l'inciucio istituzionalizzato».


Ha già in mente una data per il referendum? Cadrà prima o dopo il giudizio di Bruxelles sui conti italiani, previsto per metà ottobre?
«Dipende dai tempi della Cassazione e delle firme: ragionevolmente, ottobre. A sentire i commentatori il giudizio europeo c'è sempre, almeno una volta al mese, dunque non vedo problemi. Comunque escludo collegamenti tra data del referendum e legge di stabilità».

Nel Pd c’è chi ha già detto, come Gianni Cuperlo, che il referendum sarà di fatto un congresso per il partito. E’ così? 
«Con Cuperlo abbiamo già fatto un congresso su fronti opposti e ne faremo un altro nel 2017. Il referendum costituzionale chiede invece ai cittadini la conferma di una riforma che lo stesso Cuperlo ha già votato più volte in aula. Fatico a seguire il posizionamento della minoranza interna: un giorno mi dicono che non devo personalizzare il dibattito e devo parlare della Costituzione. Il giorno dopo trasformano il referendum in un congresso. Però almeno nel Pd si discute: non è che arriva un'azienda privata da fuori e ci manda una mail anonima di espulsione dal partito come fanno i Cinque Stelle».

Pierluigi Bersani dice che se anche vincessero i no, lei non dovrebbe dimettersi, come lei invece ha più volte detto di voler fare. Che cosa gli risponde?
«Io non sono come gli altri. Io se perdo vado a casa perché non resto se gli italiani bocciano la riforma più importante del mio mandato. Mi fa piacere però che Bersani e alcuni costituzionalisti del no si preoccupino della continuità del nostro governo. Con una battuta potrei dire che forse non stiamo andando così male come alcuni dicono».

Quanto la preoccupa l’affluenza di quel giorno? Non c’è il rischio che una riforma costituzionale, avallata da un referendum senza quorum, di fatto esca indebolita anziché rafforzata?
«Se la riforma avrà una maggioranza di sì, come io credo, a uscire rafforzata sarà l'Italia e la sua credibilità, interna e internazionale. Se sarà bocciata, vuol dire che avranno vinto i teorici dell'ingovernabilità. Intanto, nel primo weekend di raccolta firme ne abbiamo già messe insieme oltre centomila, centinaia di comitati spontanei sono già partiti e percepisco un entusiasmo che non vedevo da tempo. Alla fine voteranno sì anche molti elettori di Cinque Stelle e di centrodestra. Gente che non voterà mai per me, ma che trovandosi davanti alla possibilità di ridurre gli sprechi, semplificare le Regioni e abbassare i costi, non butterà via questa occasione». 

Se dovessero vincere i sì, visti anche i recenti provvedimenti da lei annunciati di riduzione dell’Irpef per i ceti medi, non è che potrebbe venirle voglia di anticipare le elezioni politiche al 2017?
«Per me si vota nel febbraio 2018. I risultati che stiamo ottenendo in Europa li otteniamo per la nostra capacità di fare le riforme e di dare stabilità. Prima dell'interesse del mio partito viene l'interesse del mio Paese. E l'interesse italiano è votare alla scadenza naturale».

Prima del referendum viene comunque il voto delle comunali. Quanto è preoccupato dal risultato da uno a 10?
«Da uno a dieci? Zero. Perché dovrei essere preoccupato? Si eleggono i sindaci, il Governo rispetterà i risultati. Certo, nei 17 comuni in cui governano i Cinque Stelle scoppia un problema a settimana».
 
In un sondaggio Tecnè realizzato per il Messaggero, emerge che i giovani a Roma votano Raggi. Ma il Pd renziano non doveva essere il partito della rottamazione? Le dispiace? E come se lo spiega?
«Nei sondaggi i grillini vincono sempre. Ovunque. Ricordo quelli delle europee: ci davano testa a testa, noi abbiamo preso il 40% e loro la metà. La realtà è più grande dei sondaggi, vedremo come andrà a finire». 

La accusano di tenere più al voto di Milano che a quello di Roma. Mi dice perché un cittadino romano dovrebbe votare Giachetti se il premier sembra a molti avere il torcicollo puntando tutto su Sala?
«É buffo perché a Milano dicono il contrario. Se però mi domanda perché votare Giachetti io le dico che mi dispiace non essere romano perché lo avrei votato volentieri. È una persona vera, genuina, autentica. Non si nasconde e quando c'è da rischiare rischia in proprio, come ha fatto per lo sciopero della fame sulla legge elettorale. Conosce la macchina amministrativa: ha firmato migliaia di documenti burocratici e non ha avuto neanche un avviso di garanzia, impresa quasi impossibile oggi per un amministratore pubblico. Ha una squadra di livello con sé, perché capisce che governare Roma non è una passeggiata: questa è Roma, non un talent show dove chi vuole esibirsi ci prova e al massimo viene eliminato. Roma ha bisogno di persone con esperienza amministrativa e specchiata onestà: non vedo in campo nessuno meglio di Giachetti».

Farà un’iniziativa pubblica al suo fianco?
«Sicuramente. E lo farò prima del primo turno: forse il 2 giugno, di certo nell’ultima settimana».

Le opposizioni sostengono che il governo intende dare una mano a Roma solo se vince Giachetti. Questo sospetto non rischia, anziché avvantaggiare il suo candidato, di indebolirlo?
«Noi lavoriamo con tutti. Con tutte le istituzioni, come abbiamo fatto con la Regione Lazio qualche giorno fa grazie al prezioso lavoro del presidente Nicola Zingaretti e del sottosegretario Claudio De Vincenti. Poi dipende anche dagli altri. Luigi De Magistris a Napoli rifiuta la collaborazione con il Governo e fa sfilare gli assessori nei cortei in cui si assaltano i poliziotti mentre altri sindaci, non del Pd, dialogano a livello istituzionale con la Regione e con lo Stato centrale come ha fatto Pizzarotti a Parma. Spero non lo abbiano espulso per quello. Noi collaboriamo con tutti quelli che rispettano le istituzioni, qualsiasi colore politico rappresentino». 
 
Ma se dovesse vincere un candidato che si è già espresso contro le Olimpiadi 2024, ha già pensato a come fareste a collaborare su una sfida così complicata?
«Essere contro le Olimpiadi 2024 significa essere contro la più grande opportunità che ha Roma oggi. Il sindaco che sarà eletto dovrà fare l'interesse dei romani, non di qualche società privata milanese. E se fai l'interesse dei romani, speri di vincere la candidatura olimpionica».

Venendo ai temi dell’economia, con la prossima legge di Stabilità sarà varato un taglio dell’Irpef concentrato soprattutto sul ceto medio, come si diceva. Per rispettare gli impegni presi con la Ue, bisogna però ridurre il deficit di 3 miliardi. Poi ne servono altri 8 per non far aumentare l’Iva. A conti fatti sono più di 20 miliardi. Dove troverete le risorse?
«Le cifre sono considerevolmente più basse. Ma vorrei segnalarle che la storia della copertura è la stessa che ci viene rinfacciata da più di due anni. Tutte le volte: non avete le coperture. E poi però abbiamo sempre trovato i soldi per gli 80 euro, per l'Irap, per il costo del lavoro, per gli incentivi, per il Jobs Act, il miliardo per la cultura, i soldi per eliminare la tassa sulla prima casa, il superammortamento, le tasse agricole e via così».

E’ ipotizzabile un aumento solo parziale dell’Iva per finanziare il taglio dell’Irpef? 
«No». 

A fine anno si interverrà anche sulle pensioni introducendo la flessibilità in uscita accompagnata da una penalizzazione sull’assegno per chi lascia il lavoro in anticipo. Questa penalità sarà diversa a seconda delle situazioni? Per esempio, pagherà di più chi lascia il lavoro spontaneamente rispetto a chi lo perde per crisi aziendale?
«Stiamo studiando soluzioni diverse. Quando arriveremo in sede di Stabilità, le presenteremo e le discuteremo innanzitutto con i diretti interessati. Per adesso è solo fantasia».

Con l’annuncio della futura chiusura di Equitalia il fisco prova a voltare pagina. Non teme che agli evasori possa arrivare un messaggio sbagliato, ovvero l’allentamento della lotta a chi non paga le tasse?
«Noi siamo il governo che nel 2015 ha ottenuto il risultato più interessante nella lotta all'evasione, toccando la cifra record di quasi 15 miliardi. Nessuno aveva fatto come noi prima. Altro che allentamento: lottiamo contro l'evasione ogni giorno. Ma dobbiamo farlo con uno stile diverso rispetto al passato. Più coinvolgimento, più tecnologia, più cura verso il cittadino».

Come reagirebbe l’Europa di fronte a un voto referendario favorevole alla Brexit? Davvero potrebbe dissolversi?
«Credo che sarebbe un vero guaio. Ma alla lunga il danno maggiore lo subirebbero gli inglesi, non gli europei. Spero che non accada. Ma innanzitutto lo spero per loro, prima che per noi».

Per finire, presidente, in questi giorni si parla molto di informazione. Tra Rai ed editoria, l’opposizione ma anche alcuni commentatori la accusano di “renzizzare” le testate con più discrezione, magari, ma non meno pesantemente di Berlusconi. Che cosa risponde?

«Le racconto un aneddoto che non avevo mai detto. Quando fu ufficiale la notizia che Giovanni Floris lasciava la Rai e che per Ballarò si pensava a Massimo Giannini, eravamo ancora ai tempi del Patto del Nazareno. E ogni tanto Berlusconi veniva a Palazzo Chigi per fare il punto della situazione. In uno di quei pranzi il Cavaliere mi disse: ”Accetti un consiglio? Ho visto che gira il nome di Giannini per Ballarò. Non prenderlo! Lui ti detesta, ne sono sicuro. Scegli un altro, Ballarò ti sarà utile”. Gli risposi: Presidente, a differenza tua non ho mai messo bocca su un programma Rai e non inizierò adesso. Sfido chiunque a chiedere ad Andrea Vianello, allora direttore di Rai3, o alla direzione generale di allora, se io sono mai intervenuto su un programma. Il nome che venne scelto fu proprio quello di Massimo Giannini, che sarà giudicato, immagino, sulla base dei risultati e dei contratti. Non della simpatia mia o di altri. Idem accade adesso. Quello che farà Campo dall'Orto con la sua squadra lo deciderà lui: i tempi berlusconiani degli editti bulgari non torneranno».
 
Lei ama ripetere che il suo governo nelle faccende di viale Mazzini non entra, a differenza dei predecessori. Ma, parlando almeno da spettatore Rai, non le dispiace che il prossimo anno non ci saranno più né Ballarò né Virus?
«Non amo molto i talk show, come sa. Dunque non so proprio se questi programmi verranno cancellati, confermati, ripensati. E sinceramente non mi interessa. I giornalisti credono che a me interessi incidere sull'apertura e la chiusura di un talk show, ma questo forse è il vostro mestiere, non il mio. Il mio mestiere è incidere sull'apertura e la chiusura delle fabbriche. Questo mi toglie il sonno, non il nome dei conduttori dei talkshow».
 

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