Contro l’editoria saponetta l’invettiva di Antonio Manzini

Contro l’editoria saponetta l’invettiva di Antonio Manzini
di Luca Ricci
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Sabato 23 Gennaio 2016, 10:12 - Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 10:39
“Sull’orlo del precipizio” (Sellerio, pag. 115, 8,00 €) di Antonio Manzini è un agile raccontino che narra di uno scrittore costretto a pubblicare per la Sigma, un editore cattivo che ha smantellato la Letteratura italiana a favore della Comunicazione in lingua indigena (i suoi editor sono figuri a metà strada tra i Bravi di Manzoni e le Iene di Tarantino). L’ucronia editoriale regge fino a un certo punto, e le battute dopo un po’ stancano (curioso poi che a farsi paladino della biblio-diversità e della qualità letteraria sia uno come Manzini, pubblicato da un editore indipendente, sì, ma a sua volta scrittore di gialli allineati alla moda del momento).

La storia comunque ha il merito di far ragionare il lettore più avveduto- e solo lui, ché il trattamento è fin troppo leggero e svagato- sulla letteratura come forma d’intrattenimento e sulla cultura bestsellerista. Certo, i best seller ci sono sempre stati. C’è sempre stato un gruppo di libri che ha venduto più degli altri in un determinato lasso di tempo. E a scorrere le classifiche del passato c’è da restare abbastanza allibiti: Liala ma anche Sciascia, Invernizio ma anche Buzzati, Melissa P. ma anche Rovelli. Non solo intrattenimento quindi, e in fondo anche l’intrattenimento può essere di volta in volta stupido o intelligente (e quindi non è malvagio di per sé).

Tutto bene allora? Non proprio, perché il singolo best seller è cosa molto diversa dal bestsellerismo. Il bestsellerismo è un modo di pensare secondo cui l’aspetto estetico è legato al dato di vendita (tradotto: se un libro vende è bello per forza). Il problema non è il libro di successo, ma il tentativo da parte dell’editoria globale di replicarlo a ogni costo. Così il best seller non è più una categoria merceologica bensì un genere letterario, un modello per la scrittura di altri libri. Le caratteristiche sono ormai note: la variazione narrativa deve dettare legge (una sorta di vero e proprio doping letterario); la tecnica soverchia lo stile (l’autorialità viene sostituita dal nome dell’autore in quanto brand); la lingua non deve creare resistenza al lettore (da qui la proliferazione di romanzi italiani che sembrano tradotti dall’inglese, o quantomeno rispondere a dei formati linguistici standard). Insomma uno scrittore alla classica domanda su quale genere di libri scriva potrebbe rispondere: “Il genere di libri che ha successo”. Sembra folle, ma è così.

Lo scopo? Far leggere chi di solito non legge, attirare in libreria chi esce di casa per fare uno shopping generico. La signora x ha comprato nell’ordine: una crema antirughe, un paio di guanti e un libro. Tombola! Il che tra l’altro spiegherebbe il motivo per cui i best seller del passato vendevano mediamente molto meno di quelli attuali (scolarizzazione di massa a parte). Perché mai infatti l’industria editoriale dovrebbe puntare su una fettina di mercato così inconsistente come quella dei lettori forti? Tenete conto che una delle prerogative della cultura bestsellerista è proprio quella di esaltare l’aspetto imprenditoriale delle case editrici, annichilendo invece quello di guida culturale, di laboratorio per formare coscienze e veicolare idee forti (a meno che queste idee forti non diventino tutt’a un tratto di moda, insomma una merce appetibile: si veda ad esempio la vagonata di libri-denuncia che si è portato dietro il fenomeno Saviano). D’altronde se il lettore è diventato soltanto un cliente, è pacifico che il libro si sia trasformato (o si stia trasformando o a breve si trasformerà) in una saponetta.

Luca Ricci (Twitter: @LuRicci74)
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