Rugby Side
di Paolo Ricci Bitti

Rugby World Cup, Amarcord il 1991: gli azzurri vincono il rispetto degli All Blacks

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Venerdì 18 Settembre 2015, 17:56
  LONDRA - Di nuovo in Inghilterra dopo 24 anni, in viaggio attraverso otto Coppe del Mondo di rugby meno una, la prima, nel 1987 in Nuova Zelanda, che poi in realtà si rivelò un meraviglioso jamboree amatoriale allestito alla “bellemeglio” da tanti volontari e con molti dubbi sul fatto che il rugby avesse davvero bisogno di imitare gli altri sport plebei con queste competizioni, quando c’erano già, e dalla fine del 1800, il Quattro/Cinque Nazioni e le favolose tournée e i Lions, se proprio si volevano disegnare disdicevoli gerarchie francamente inutili in una contesa fra gentiluomini. Quella prima coppa William Webb Ellis fu un successo e allora quattro anni dopo via con la seconda edizione in Gran Bretagna e Francia, allestita con rigore tutto british: molto spettacolo, grande organizzazione e grande business. Un evento che, in 24 anni, ha generato un altro solido ramo nella quercia del rugby piantata nel 1823.  Amarcord Twickenham nel 1991 con i tetti di tre tribune su quattro di lamiera ondulata verde e la grande scritta RFU: ti appariva all’improvviso, il tempio non ancora astronave, quando scalavi la passerella soprelevata pedonale che ti portava fuori dallo stadio naif e allegro degli Harlequins a Richmond. Non era possibile che fra poche ore l’Italia ci avrebbe giocato dentro. E contro l’Inghilterra, che fino ad allora ci aveva sempre rifiutato l’onore del test match. Non era possibile. E invece Zanon e i Cuttitta, in mondovisione, vendettero cara la pelle. E in tribuna ci vennero i brividi mille volte. E il cuore batteva d’orgoglio. Il rugby italiano, grazie alla Coppa del Mondo, usciva dalle periferie ovali. Amarcord l’Arms Park. Di cemento grigio, a ferro di cavallo, con una “curva” (diritta) bassa in cui si stava in piedi e i palazzi di Cardiff downtown che, alle spalle degli spettatori, si affacciavano sul match. No, l’Italia lì non ci giocò, ma lì Samoa guerreggiò con furore tale da abbattere i gallesi, i cori commoventi degli spettatori strozzati in gola. Avevamo assistito a un miracolo, a una tragedia, a una cosa che non poteva semplicemente accadere e che invece ci si era materializzata davanti. L’atterraggio di un ufo al centro del prato avrebbe fatto meno effetto. Amacord lo stadio di Otley, che poi non era uno stadio, ma un accrocco di tribune di legno che in Italia sarebbe sembrato triste e misero ma che in quelle contee, dove avevano inventato il rugby, appariva come un’arena medievale in attesa delle sfide tra cavalieri. Il cavaliere più bravo che – ci fosse stata - avrebbe vinto il bacio della principessa fu Ivan Francescato, di corsa fino in meta ingannando uno, due, tre, quattro, cinque americani. Vittoria con gli Usa. Non contava nulla, contava tutto. Amarcord lo stadio di Leicester, tutto di mattoni rossi erosi forse dalla tempeste di fumo nero che si alzava dalle griglie dove cipolle e salsicce sfrigolavano senza sosta. Era il naso a portarti fino alle tribune fin da molte miglia di distanza. Vinsero gli All Blacks, ma trionfò l’Italia, dissero con ammirazione gli stessi neozelandesi dopo aver penato per avere ragione degli azzurri guidati da Bonomi, uno che ha dato al rugby troppo poco rispetto a quello che avrebbe potuto. Ma, naturalmente, molte grazie lo stesso. Ricordo, quel giorno di sole di 24 anni fa, gli occhi degli azzurri, dei colleghi, dei tifosi italiani: in tre settimane eravamo diventati adulti in un mondo antico che da bambini avevamo solo potuto sognare. Sognare, non sperare tanto era la distanza tra il desiderio e la realtà. Amarcord la Regina Elisabetta in giallo che a Twickenham consegna la coppa a John Eales, detto Nobody, perché Nessuno è perfetto. I canguri di Campese avevano battuto gli inglesi che quel giorno pretesero ingenuamente di vincere i mondiali giocando all’australiana. Un affronto all’ortodossia che non ripeteranno più. In tribuna stampa, per quel match da Empireo ovale, erano stati così gentili da lasciare qualche posto anche a noi rari italiani. E rispetto alla partita Inghilterra-Italia di un mese prima non c’erano più bisbigli e sguardi dubbiosi, spocchia, diciamolo pure, ma tante domande: “Allora, dopo questo vostro bellissimo mondiale, come va il rugby in Italia?”. “Meglio, grazie, molto meglio”. (1-continua)
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