Squilibri europei, la Germania non rispetta le regole che impone

di Romano Prodi
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Giovedì 24 Settembre 2015, 23:24 - Ultimo aggiornamento: 25 Settembre, 00:11
Il caso Volkswagen ci obbliga a riflettere. Non sono infatti sorpreso più di tanto nei confronti di gravi irregolarità commesse da un’azienda, anche se da un’azienda leader nel mercato mondiale. Questo perché conosco bene che la forza e la grandezza spingono quasi naturalmente un’impresa a ritenere che le regole siano sottoposte al proprio potere e non viceversa.

Abbiamo tra l’altro molti precedenti in materia non solo nel settore automobilistico ma in tanti altri campi, cominciando da quello finanziario per finire in quello farmaceutico. E nessun Paese ne è rimasto immune in passato, Germania compresa, nonostante le virtù del sistema industriale tedesco. Basta ricordare i precedenti scandali della Siemens e della stessa Volkswagen.

In questo caso, tuttavia, vi sono elementi aggiuntivi sui quali è opportuno meditare. In primo luogo si tratta di una violazione esercitata in un settore particolarmente delicato, che è quello dell’inquinamento, nel quale l'Europa, sotto guida tedesca, ha imposto a tutti regole severe e ha preteso di essere un esempio di coerenza e rigore non solo di fronte agli Stati Uniti ma di fronte a tutto il mondo, inclusi i Paesi in via di sviluppo, che sono stati regolarmente messi in croce per non rispettare regole più rigorose a protezione dell’ambiente.

Nei primi giorni del prossimo dicembre si svolgerà infatti a Parigi la grande conferenza sull’ambiente.



Una conferenza nei confronti della quale l’Europa intendeva presentarsi come leader mondiale nel garantire la sostenibilità futura degli equilibri ambientali, proseguendo così nella via segnata dall’Unione Europea, che tanto si era impegnata per la ratifica del protocollo di Kyoto.



Un danno di immagine quasi irreparabile, anche perché le disposizioni sull’inquinamento delle autovetture erano state ammorbidite dopo una lunga battaglia proprio per tenere conto degli interessi dell’industria automobilistica tedesca che, producendo modelli in media più potenti di quelli degli altri Stati, necessitava di regole meno stringenti. Regole che la Germania ha duramente imposto agli altri Paesi: il fatto che esse siano state pesantemente violate dalla più grande impresa germanica non può che lasciarci sorpresi e interdetti, anche perché questo comportamento si affianca ad altri comportamenti altrettanto incoerenti, come il mancato rispetto di altri impegni come la diminuzione dell’utilizzazione del carbone nella produzione di energia elettrica.



Ci si deve inoltre chiedere come mai il riconosciuto inganno sia stato messo in luce negli Stati Uniti e non in Europa. Certo le leggi americane sono più stringenti ma il fatto vero è che si è voluto che in Europa i controlli fossero meno severi e che, soprattutto, non vi fosse nessun controllo sui comportamenti effettivi delle vetture su strada. Siamo cioè di fronte ad una situazione del tutto particolare di una politica industriale europea che è (comprensibilmente) guidata dal Paese più forte a servizio dei propri interessi ma questa stessa politica non viene poi rispettata dalle maggiori imprese del Paese stesso.



Se uno Stato ha la forza di imporre le politiche a proprio vantaggio bisogna che almeno abbia la stessa forza nell’imporre comportamenti conseguenti alle proprie imprese. Non voglio con questo aderire alla tesi che il governo tedesco sapesse tutto o che, addirittura, fosse parte della cospirazione. Non lo credo ma debbo allo stesso tempo constatare che le grandi imprese tedesche fanno parte di un sistema di protezione efficiente e compatto che si estende, con caratteristiche che molti invidiano, dal governo nazionale alle autorità regionali, dai sindacati alle associazioni imprenditoriali. Questa capacità di agire in modo sinergico e coordinato nel proteggere gli interessi nazionali ha avuto importanza determinante nel rafforzare il sistema germanico tanto a Bruxelles quanto nella concorrenza globale.



Se limitiamo lo sguardo all’Europa e ad un campo di nostro diretto interesse dobbiamo ad esempio notare il ben più severo atteggiamento delle autorità europee nei confronti delle Banche Popolari Italiane rispetto alle Landesbanken tedesche, nonostante le cospicue anomalie di queste ultime nei confronti delle regole di mercato. Pur dovendo attendere le future evoluzioni del caso Volkswagen possiamo quindi fin da ora concludere che queste violazioni sistemiche possono avvenire solo quando vengono a mancare o ad indebolirsi gli equilibri di potere che debbono esistere tra gli Stati e tra gli Stati e le grandi imprese, le quali stanno sempre più assumendo un potere che sovrasta il potere stesso dei governi.



Mi auguro quindi che il caso Volkswagen sia una utile occasione per ripensare non solo al ricambio dei vertici di questa gloriosa impresa ma ai necessari equilibri della futura politica industriale europea. Se infatti è vero che tutti tendono a prevaricare, è bene che nessuno sia messo nella tentazione di prevaricare troppo.