Etica e grammatica, darsi del “lei” per salvare ruoli e
identità

di Mario Ajello
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Lunedì 14 Settembre 2015, 23:49 - Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 00:20
C’è una grammatica immorale della lingua italiana. Nella quale merita di stare, ai primi posti, il «tu». Ha fatto bene dunque Umberto Eco, nel discorso per il festival della comunicazione di Camogli, a prendersela con questo pronome invasivo ed egemone. E la neo-lingua del «tu», in effetti, stride con il modo di parlare, non ipocrita anche se in apparenza meno politicamente corretto, che si incarica (o si incaricava) invece di marcare legittime distanze di ruolo tra persone diverse che nel mainstream della società odierna si sono purtroppo sgretolate. Facendoci sembrare tutti troppo uguali e troppo amici. Se fossero vivi Fruttero & Lucentini avrebbero inserito la monocultura del «tu» in un capitolo del loro capolavoro intitolato «La prevalenza del cretino»? Probabile.

Dare del «tu» a un adulto sconosciuto, che si trova in una reale o supposta posizione di inferiorità, è volgare e irrispettoso. Ma Eco nota anche l’inverso. Dicendo che il «tu», usatissimo dagli extra-comunitari arrivati da noi e rivolto «indistintamente» verso chiunque, gli ricorda il terribile «zi, badrone»: ovvero una forma di schiavitù non solo linguistica.



CAMBIAMENTI

Bisognerebbe allora insegnare l’uso del «lei», oltre che agli italiani, anche a chi arriva in Italia magari cominciando proprio da loro il recupero di un pronome che dà dignità sia a chi lo pronuncia sia a chi lo riceve? «Il tu - sostiene De Mauro - è figlio di una spinta egualitaria senza uguaglianza. I migranti imparano tante cose, possono imparare benissimo anche il lei. Che conviene a tutti e non contiene ipocrisie. Dare del tu, dall’alto in basso o in maniera fintamente orizzontale, a una persona che viene a vivere da noi è abominevole. Va dato loro del lei. E loro vanno abituati a dare del lei perché così si dovrebbe fare, nella lingua italiana, tra persone che non si conoscono. È più dignitoso, per chi arriva a vivere da noi e per chiunque altro, dare e ricevere del lei perché questo scambio è una forma di reale parità sociale». La demagogia del «tu» pare comunque irrefrenabile.



L’Italia di oggi è un Paese abitato da tribù linguistiche che faticano a colmare le reciproche distanze anagrafiche, sociali, economiche, politiche e culturali, e il «tu» è diventato la scorciatoia per connettersi. Fingendo una prossimità che fa male a tutti. Siccome «chi parla male pensa male» (copyright Nanni Moretti), una cosa così apparentemente piccola (due lettere invece delle tre del «lei») nasconde molto di più: l’abitudine a non rispettare nessuna regola, la propensione ad assecondare qualsiasi stortura.



COMPAGNI

«Non è vero - spiega lo storico Luciano Canfora - che i comunisti sono stati i veri titolari del tu. I comunisti tedeschi e quelli russi usavano il “lei, compagno”. C’è una proverbiale battuta attribuita a Palmiro Togliatti, credo veridica perché è nello stile dell’uomo, in cui il leader del Pci diceva: «Caro compagno, dammi pure del lei». Voleva dire che essere compagni di partito non significava essere compagni di merende. Il tu è un abbassamento delle barriere falso e velleitario. Nell’antica Roma, all’imperatore ci si rivolgeva con il tu e non per un fatto di invadenza: ma soltanto perché era l’unico pronome disponibile».



Oggi è sparito il «voi» - che il regime mussoliniano aveva imposto a scapito del «lei», tra gli sghignazzi degli anti-fascisti: «Ora Galileo Galilei lo dovremo chiamare Galileo Galivoi» - ma non per questo bisogna arrendersi all’egemonia del «tu». «Mi fa impressione - incalza Canfora - una cosa: il migrante magari nel proprio Paese è un professore e il poliziotto semi-alfabeta che lo riceve in Italia è un semi-letterato il quale però si rivolge al nuovo arrivato dandogli del tu. Ponendosi in una posizione di superiorità e spingendo l’altro, anche quando non conosce soltanto il tu, a rispondergli con questo pronome. E così, fin dall’inizio, il rapporto culturale e sociale è falsato».



Secondo il linguista Raffaele Simone, che ha appena pubblicato il saggio politico «Come la democrazia fallisce» (Garzanti), «è impossibile insegnare agli immigrati il lei, visto che non riusciamo a insegnarlo neppure ai giovani nati e cresciuti qui. Il tu dilaga perchè è più facile da usare. E siamo diventati tutti svedesi o, paradossalmente, socialisti». Cioè?



«In Svezia - spiega Simone - i vecchi governi di sinistra decisero per legge l’uso del tu, cancellando il voi, per livellare le differenze individuali e di classe». Qui in Italia si è avuto un esito simile, senza bisogno di leggi ad hoc. Ma deve avere influito, in questo dilagante malcostume espressivo, la sindrome di Peter Pan: ovvero il siamo tutti eternamente giovani, e siccome i giovani si danno del «tu» diamoci del «tu» sempre, comunque e con chiunque. Anche tra avversari politici che mentre si danno del tu - «#enricostaisereno» - si stanno facendo del male. «La mia reazione quando mi danno del tu - osserva De Mauro - vorrebbe essere questa: ma chi te conosce!». Poi il grande linguista si fa serio e racconta: «Mio fratello Mauro, nel ’41, faceva la recluta a Torino. Si trovò in una fila insieme a un distinto signore piemontese il quale gli disse: ti passo avanti perché ho fretta. Mio fratello reagì: anch’io ho fretta e perché lei mi dà del tu? Quello si arrabbiò perché una recluta doveva farsi dare del tu e starsi zitto».



Ora invece viene da ribellarsi con forza, e in maniera interclassista, ammesso che non sia troppo tardi.