Dare del «tu» a un adulto sconosciuto, che si trova in una reale o supposta posizione di inferiorità, è volgare e irrispettoso. Ma Eco nota anche l’inverso. Dicendo che il «tu», usatissimo dagli extra-comunitari arrivati da noi e rivolto «indistintamente» verso chiunque, gli ricorda il terribile «zi, badrone»: ovvero una forma di schiavitù non solo linguistica.
CAMBIAMENTI
Bisognerebbe allora insegnare l’uso del «lei», oltre che agli italiani, anche a chi arriva in Italia magari cominciando proprio da loro il recupero di un pronome che dà dignità sia a chi lo pronuncia sia a chi lo riceve? «Il tu - sostiene De Mauro - è figlio di una spinta egualitaria senza uguaglianza. I migranti imparano tante cose, possono imparare benissimo anche il lei. Che conviene a tutti e non contiene ipocrisie. Dare del tu, dall’alto in basso o in maniera fintamente orizzontale, a una persona che viene a vivere da noi è abominevole. Va dato loro del lei. E loro vanno abituati a dare del lei perché così si dovrebbe fare, nella lingua italiana, tra persone che non si conoscono. È più dignitoso, per chi arriva a vivere da noi e per chiunque altro, dare e ricevere del lei perché questo scambio è una forma di reale parità sociale». La demagogia del «tu» pare comunque irrefrenabile.
L’Italia di oggi è un Paese abitato da tribù linguistiche che faticano a colmare le reciproche distanze anagrafiche, sociali, economiche, politiche e culturali, e il «tu» è diventato la scorciatoia per connettersi. Fingendo una prossimità che fa male a tutti. Siccome «chi parla male pensa male» (copyright Nanni Moretti), una cosa così apparentemente piccola (due lettere invece delle tre del «lei») nasconde molto di più: l’abitudine a non rispettare nessuna regola, la propensione ad assecondare qualsiasi stortura.
COMPAGNI
«Non è vero - spiega lo storico Luciano Canfora - che i comunisti sono stati i veri titolari del tu. I comunisti tedeschi e quelli russi usavano il “lei, compagno”. C’è una proverbiale battuta attribuita a Palmiro Togliatti, credo veridica perché è nello stile dell’uomo, in cui il leader del Pci diceva: «Caro compagno, dammi pure del lei». Voleva dire che essere compagni di partito non significava essere compagni di merende. Il tu è un abbassamento delle barriere falso e velleitario. Nell’antica Roma, all’imperatore ci si rivolgeva con il tu e non per un fatto di invadenza: ma soltanto perché era l’unico pronome disponibile».
Oggi è sparito il «voi» - che il regime mussoliniano aveva imposto a scapito del «lei», tra gli sghignazzi degli anti-fascisti: «Ora Galileo Galilei lo dovremo chiamare Galileo Galivoi» - ma non per questo bisogna arrendersi all’egemonia del «tu». «Mi fa impressione - incalza Canfora - una cosa: il migrante magari nel proprio Paese è un professore e il poliziotto semi-alfabeta che lo riceve in Italia è un semi-letterato il quale però si rivolge al nuovo arrivato dandogli del tu. Ponendosi in una posizione di superiorità e spingendo l’altro, anche quando non conosce soltanto il tu, a rispondergli con questo pronome. E così, fin dall’inizio, il rapporto culturale e sociale è falsato».
Secondo il linguista Raffaele Simone, che ha appena pubblicato il saggio politico «Come la democrazia fallisce» (Garzanti), «è impossibile insegnare agli immigrati il lei, visto che non riusciamo a insegnarlo neppure ai giovani nati e cresciuti qui. Il tu dilaga perchè è più facile da usare. E siamo diventati tutti svedesi o, paradossalmente, socialisti». Cioè?
«In Svezia - spiega Simone - i vecchi governi di sinistra decisero per legge l’uso del tu, cancellando il voi, per livellare le differenze individuali e di classe». Qui in Italia si è avuto un esito simile, senza bisogno di leggi ad hoc. Ma deve avere influito, in questo dilagante malcostume espressivo, la sindrome di Peter Pan: ovvero il siamo tutti eternamente giovani, e siccome i giovani si danno del «tu» diamoci del «tu» sempre, comunque e con chiunque. Anche tra avversari politici che mentre si danno del tu - «#enricostaisereno» - si stanno facendo del male. «La mia reazione quando mi danno del tu - osserva De Mauro - vorrebbe essere questa: ma chi te conosce!». Poi il grande linguista si fa serio e racconta: «Mio fratello Mauro, nel ’41, faceva la recluta a Torino. Si trovò in una fila insieme a un distinto signore piemontese il quale gli disse: ti passo avanti perché ho fretta. Mio fratello reagì: anch’io ho fretta e perché lei mi dà del tu? Quello si arrabbiò perché una recluta doveva farsi dare del tu e starsi zitto».
Ora invece viene da ribellarsi con forza, e in maniera interclassista, ammesso che non sia troppo tardi.