Isis e mass media: la sanguinaria Hollywood dei tagliagole

Isis e mass media: la sanguinaria Hollywood dei tagliagole
di Carmine Castoro
6 Minuti di Lettura
Martedì 9 Giugno 2015, 05:58 - Ultimo aggiornamento: 14 Giugno, 11:54
Un importante imprimatur interpretativo alle sanguinarie e deliranti derive del neonato Califfato Islamico lo appone Bruno Ballardini sin dalle primissime righe del suo interessantissimo e documentatissimo saggio “Il marketing dell’Apocalisse” (Baldini & Castoldi, euro 17): “L’obiettivo del jihad, al quale lo Stato Islamico richiama milioni di persone in tutto il mondo, non è di carattere economico ma geopolitico e religioso ad un tempo”.



Dunque, nonostante l’ISIS estragga in un imperioso crowd funding milioni di euro dal possesso di circa 300 pozzi di petrolio in Iraq, dal commercio di reperti archeologici depredati in siti di millenario prestigio, dalle estorsioni, dallo sfruttamento di contadini che producono grano, da plutocratiche donazioni e finanche dalla sperimentazione del bitcoin, la moneta digitale non tracciabile, la finalità precipua di un tentacolare apparato teo-militare in preoccupante fase di espansione nelle regioni del Grande Levante non è l’arricchimento e il saccheggio, ma l’istituzionalizzazione di un fondamentalismo che semina vittime e fiumi di sangue se non riesce nell’obiettivo di un facile proselitismo.



Nell’analisi storico-sociale ad ampio spettro, Ballardini è in totale sintonia con Patrick Cockburn, analista di fama internazionale, corrispondente dal Medio Oriente per il The Independent, che, nel suo “L’ascesa dello Stato Islamico” (Stampa alternativa, euro 14), chiarisce anch’egli sin da subito basi e radici di una creatura-monstre che inquieta l’immaginario collettivo dell’Occidente e non solo. “L’ISIS è figlio della guerra – dice -. I suoi membri cercano di trasformare il mondo che li circonda ricorrendo alla violenza. La combinazione letale ma efficace di estremismo religioso ed esperienza militare è frutto innanzitutto della guerra in Iraq, iniziata nel 2003 con l’invasione da parte degli Stati Uniti, e poi del confronto bellico scoppiato in Siria nel 2011”.



Proprio, dunque, qui, dentro i confini della Siria di Assad, mentre l’invasione a stelle e strisce perdeva la sua iniziale forza d’urto nelle terre che furono di Saddam Hussein e nell’Afghanistan, il fanatismo sunnita avrebbe ricevuto massicce iniezioni finanziarie e supporti logistici dai sovrani e dagli emiri del Golfo Persico per accendere ed esacerbare un conflitto riconducibile a due grossi schieramenti: Usa, Arabia Saudita e sunniti da un lato; Iran, Iraq e sciiti dall’altro, con in più, sullo sfondo, la ripresa della guerra fredda con Mosca per via del collasso libico e della guerra civile in Ucraina.



Uno scacchiere complesso, dove si intrecciano interessi ampi e intricati, e dove una sorta di foschia ideologica mescola amici e nemici, porterebbe, in prima battuta, di fronte all’opinione pubblica internazionale, al disprezzo verso le tecniche terroristiche e il delirio di onnipotenza dei seguaci di Abu Bakr-Al Baghdadi, ma di fatto evidenzierebbe pure una sorta di sequenza operativa stretta, per non dire di connivenza articolata e certificata, fra paesi occidentali e radicalismo islamico wahabita - quello che inneggia alla sharia, al declassamento delle donne e alla taccia di infedeltà e apostasia per gli sciiti -, consustanziale alle cellule di Al Qaeda, e infine travasato nelle stragi e nelle epurazioni dei capi-dottrina dell’ISIS e dei suoi tagliagole mascherati.



L’ISIS “sogno ignorante in mano a pochi disperati”, dice Ballardini, e forse proprio per questo sorta di Frankenstein la cui forza mortifera è sfuggita dalle mani dei suoi chirurghi globali, che lo avrebbero iniettato come un “seme geneticamente modificato”, come un agente mutante, un transformer scellerato per fare blocco contro nemici storici, e contro la cui avanzata diabolica si cerca ora di mettere un disperato argine.



Niente da dire, allora, che tutto si svolga su piattaforme mediatiche accelerate e sofisticate, che l’ISIS stesso diventi – secondo Ballardini – una vera e propria Marca da difendere, e che come i prodotti della pubblicità vada difeso, pianificato, incrementato negli effetti, circondato di reclute e servitori, accentrato nelle mani di officianti assassini, spalmato su quante più province possibili con la spada e il marketing. Ballardini ci accompagna in un percorso sinusoidale in cui il falso si fonde col vero, l’educazione dei ragazzini al sacrificio dei campi di battaglia, il martirio dei fanti-eroi al lavacro nauseante di migliaia di uomini e donne immolati per un Allah che resta lo stesso Grande, Clemente e Misericordioso nella considerazione dei carnefici.



La realtà che l’ISIS proietta all’esterno delle sue trincee diventa, allora, un oggetto-bersaglio, un’impronta, un calco, una placenta che ospita una matrice, una estetica transgenica che si nutre dei tentacoli di una vera e propria “Hollywood della propaganda” fatta di musiche, videogame, cortometraggi, film, social network, tutorial, browser protetti, reportage e inni gloriosi, per innescare la micidiale fiamma dell’apostolato e della paura mondiale. Non passa giorno che i nostri organi di informazione mainstream non diventino target di affilati registri di produzione di immagini e di minacce globali da parte dell’ISIS che usa, ormai da tempo, tecniche tipiche degli Studios e dei canali di news, più una recente emissione tv full time con range di riferimento tipicamente occidentali. Il video del rogo in cui perisce fra urla strazianti l’aviere della Royal Jordanian Air Force, catturato dopo che il suo aereo era stato abbattuto, si fa annunciare dal coming soon “Healing of the believer’s chests” – Guarigione del cuore dei credenti – e si dilunga in una fase iniziale di svariati minuti sulle prove dell’”apostasia” di vari paesi arabi che hanno appoggiato la “crociata alleata sionista”, Giordania in testa a tutti; e sia in queste che nelle fasi cruciali del supplizio del povero ufficiale prigioniero, si avverte lo sfoggio di una capacità cinematografica che unisce i videogame, le crime fiction e finanche le spy-story da 007: inquadrature multiprospettiche, riprese dall’alto, sonoro sdoppiato, campi lunghi, montaggi velocissimi, sovrimpressioni e sottotitoli (patinatissimo “The message signed with blood”, girato su una riva libica, dove vengono sgozzati 21 cristiani copti).



Lo Stato Islamico, perfettamente in linea con la disinformatia totalitaristica, di destra e di sinistra, è stato capace di scippare alcuni hashtag relativi a club di supporter di singole squadre partecipanti agli ultimi Mondiali di calcio per veicolare più facilmente messaggi di ben altro contenuto ideologico; diffonde attraverso Al Hayat Media i cosiddetti mujatweets, piccoli filmati di pochi minuti, e documentari molto più lunghi, come Saluti dalla terra e Fiamme della guerra, dove i “cittadini” dell’ISIS sono felici, soldati feriti vengono confortati, i nuovi miliziani appena reclutati in Europa si dicono orgogliosi di andare a combattere sul fronte siriano, ai bambini vengono dati gelati, gli chef parlano delle loro pietanze, e il trionfalismo marziale la fa da padrone con cavalli, veicoli militari e AK-47 in bella mostra.



Anche Patrick Cockburn, corrispondente di guerra per il The Independent, svela gli stessi altarini negli insospettabili scenari della guerra di espansione dell’ISIS, quando ricorda che, dopo la conquista di Falluja nel gennaio 2014 da parte delle milizie del Califfo, i sostenitori del governo iracheno fecero circolare tramite Twitter e Facebook le immagini rassicuranti degli insorti eliminati da missili aria-terra, ma si scoprì che erano immagini dell’Afghanistan e che le bombe provenivano da aerei americani su un’area talebana. Analogo sistema usato dai sunniti di Tikrit un anno prima, quando si decise di chiudere tutte le moschee della città tranne una, per far vedere ai network degli Stati del Golfo Persico una ressa di gente raccolta in un piccolo spazio, e indurre l’idea che la rivolta fosse massiccia, per non perdere il loro ricco finanziamento ai progetti fondamentalisti.



Perché oggi il falso - ci tiene a sottolineare giustamente Ballardini - non è solo copertura o nascondimento del vero, ma, peggio, auto-determinazione e auto-rafforzamento di una luccicanza tecnologica, di una retorica del visibile così pervasive, credibili, osannate e al di sopra di ogni sospetto, da alimentare i nostri convincimenti più stabili con estrema facilità. E in questo il Drago del Capitale obamiano o il Deserto della cruentissima predicazione integralista non possono che trovare, per nostro unico sfacelo, un punto di contatto nel livellamento delle diversità, nell’installazione di un Pensiero Unico comunque plasmato, in quella autofagia, televisiva e concettuale, che trae linfa solo dall’immutabilità di quanto il presente già ci offre: un abbraccio di tragedia e spettacolo a portata di zapping.