Mangiare la pajata senza vergognarsene

di Pietro Piovani
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Mercoledì 12 Agosto 2015, 23:32 - Ultimo aggiornamento: 13 Agosto, 00:21
riempivo lo stomaco di semi di chia, quinoa, bulgur, soya e seitan. Sognavo la pajata #sivedechestoadieta?

@SuperEgoVsMe



Quando, al termine di una lunga battaglia politica e legale, i fiorentini riuscirono a far cancellare il bando imposto dalle autorità europee sulla loro bistecca con l’osso, si fece festa in Toscana e nel Paese tutto. La stessa cosa non è accaduta questa settimana con la definitiva riabilitazione della nostra pajata, dopo quattordici anni di divieto. Questo non perché Roma sia meno importante o meno potente di Firenze, non si vuole aprire qui una lagnosa protesta campanilistica. Il punto è che noi romani, sotto sotto, siamo i primi a vergognarci della nostra cucina. I nomi dei nostri piatti tradizionali, da “pajata” a “vaccinara”, sono considerati sinonimi di trivialità, e “alla matriciana” è espressione entrata nel vocabolario nazionale per definire qualcosa di romanamente plebeo e, in genere, di squallido, insomma un insulto. Nessuno parlerebbe delle ricette milanesi con tono spregiativo, nessuno contesterebbe la Lega Nord definendola un partito “allo zafferano”, perché anzi le farebbe un complimento. Solo la gastronomia romana può essere usata come marchio di ignominia. Alcuni obiettano che la cucina delle nostre parti non è adeguata ai tempi moderni. «È troppo pesante», spiegano. E certamente è vero che i sapori forti e l’alto contenuto calorico non vanno di moda nell’era del tofu e della quinoa. Ma forse è vero anche che, a tavola come in tutto il resto, ciò che si fa e si dice a Roma è ormai visto come un repertorio di sguaiatezze, di mortacci e di coltellate, dimenticando che la cultura di questa città è invece millenaria e sofisticatissima. Talmente sofisticata da trasformare in una prelibatezza le interiora di vitello piene di latte, altro che Cracco.



pietro.piovani@ilmessaggero.it