Savini, cibi congelati serviti come freschi: condannato per frode lo storico ristorante di Milano

Savini, cibi congelati serviti come freschi: condannato per frode lo storico ristorante di Milano
3 Minuti di Lettura
Venerdì 24 Agosto 2018, 17:32 - Ultimo aggiornamento: 17:33
Il Savini, in galleria Vittorio Emanuele a Milano, è molto più di un ristorante. E’ un’istituzione. Aperto nel 1867, conserva nelle sale un arredo dal fascino immutato, ai suoi tavoli Filippo Tommaso Marinetti ha scritto il manifesto del Futurismo. Nella sala Toscanini, altro cliente illustre, sedevano Onassis e la Callas, Luchino Visconti, Charlie Chaplin, Totò, Grace Kelly. Poi finanzieri come Enrico Cuccia o la principessa Diana di passaggio in città. Propone, in chiave gourmet, piatti della tradizione italiana e chi cena al Savini si aspetta la massima qualità e prodotti freschissimi. Ma il 10 settembre 2012 i vigili dell’annonaria scoprono, durante un controllo a sorpresa, che non vi è totale corrispondenza tra quanto scritto nel menu e quanto finisce nelle pietanze. Ora, con una sentenza della Cassazione, si chiude con una condanna di quattro mesi il procedimento per frode in commercio.

«MENU POCO CHIARI»
Secondo quanto ricostruito dai pm, il ristorante serviva per freschi prodotti in realtà congelati e non forniva quindi le adeguate avvertenze ai clienti. Così, dopo un procedimento lungo sei anni, la Suprema corte ha emesso una sentenza di colpevolezza nei confronti di Giuseppe Gatto, 66 anni, che nel 2010 ha rilevato con il figlio Sebastian lo storico ristorante di via Foscolo. All’epoca dei fatti Gatto era presidente del consiglio di amministrazione del locale, una srl sotto il profilo fiscale. Per la Cassazione i menu non erano sufficientemente chiari poiché, relativamente ai prodotti congelati, riportavano a margine delle pagine di presentazione del locale due note. E l’unico modo per rendersi conto della potenziale presenza di merce non di giornata era leggerle: «Gentile cliente, la informiamo che alcuni prodotti possono essere surgelati all’origine o congelati in loco (mediante abbattimento rapido di temperatura), rispettando le procedure di autocontrollo ai sensi del reg. CE 852/04. La invitiamo quindi a volersi rivolgere al responsabile di sala per avere tutte le informazioni relative al prodotto che desiderate», recitavano. Troppo poco per i giudici, che già in primo grado hanno stigmatizzato i metodi insufficienti «a garantire una puntuale informazione sulle qualità del prodotto venduto». Il motivo: «L’informazione tramite il menu non era adeguata per la conformazione grafica che sfuggiva all’attenzione dell’avventore», era «relegata, con carattere minuscolo, a margine delle pagine di presentazione del locale». Senza asterischi, rimarcano i giudici, accanto ai piatti con materie prime provenienti dal freezer, senza un’avvertenza di «dovuta evidenza, magari collocata in grassetto prima della lista delle pietanze».

DIRITTO ALL’INFORMAZIONE DEL CONSUMATORE
Non solo: «I prezzi dei prodotti e la loro presentazione nel menu, unitamente alle caratteristiche di ristorazione d’élite dell’esercizio, erano tali da indurre l’avventore medio a ritenere che il prodotto fosse fresco».La Cassazione sottolinea inoltre che, «per prassi aziendale, buona parte dei prodotti, specie quelli ittici, erano preparati e abbattuti in loco anche se non destinati a essere somministrati crudi; spesso, date le caratteristiche dell’offerta, i prodotti freschi acquistati non erano sufficienti a soddisfare la domanda; al personale di sala non era stata impartita una specifica disposizione, affinché d’iniziativa informasse i clienti dello stato fisico del prodotto congelato; al momento del controllo, non erano stati rinvenuti prodotti freschi analoghi a quelli congelati o surgelati presenti nelle celle frigorifere».
Conclusione: «L’uso di prodotti congelati e surgelati era la prassi e non l’eccezione, con conseguente inidoneità del menu a rappresentare il prodotto offerto». La famiglia Gatto aveva presentato ricorso, ma senza successo. Sia la Corte d’appello che la Cassazione hanno, infatti, stabilito che non è stato rispettato il diritto all’informazione del consumatore.
© RIPRODUZIONE RISERVATA