Parere contestato/ I vitalizi da ridurre e l’assist che può creare un impasse

di Ginevra Cerrina Feroni
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Lunedì 13 Agosto 2018, 00:44 - Ultimo aggiornamento: 15:51
Sta facendo discutere - anche perché apre all’attacco delle “pensioni d’oro” (e domani chissà cos’altro) un recente parere. Il recente parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato sul taglio dei vitalizi parlamentari. Più precisamente, sul ricalcolo retroattivo delle pensioni basato sul sistema contributivo. Eppure solo a ottobre 2017 le Camere avevano audito non pochi costituzionalisti e quasi tutti avevano giudicato opportuna una legge e dubbia l’applicazione retroattiva. Ora, a cose fatte alla Camera - il Consiglio di presidenza già un mese fa aveva, infatti, deciso la ghigliottina - arriva il parere. E il risultato è, a sorpresa, un “si può fare”: o con legge, o con atto interno della singola Camera. E pure retroattivamente, purché il taglio sia necessario e ragionevole. I pareri del Consiglio di Stato si chiedono per certezza giuridica. È immaginabile così abbia inteso la Presidente del Senato, Alberti Casellati, quando lo richiese, prendendo distanza dalla precipitazione della Camera. 

Il risultato è però dubitabile. Con le elastiche categorie del necessario e del ragionevole, finale via d’uscita del parere, non si fa chirurgia di amputazione, che richiede millimetrica precisione. Con la conseguenza che la Camera - dalla spinta moralizzatrice - si chiuderà a riccio in quel comodo elastico, pensandosi indenne dai ricorsi degli interessati: uomini del passato. E che importa se andranno alla disperata ricerca di un giudice. Il parere, al tema del “diritto al giudice”, assegna ben poco rilievo. E il Senato sarà nell’impasse, stretto tra l’immobilità o una soluzione compromissoria. Con l’effetto di alimentare ricorsi e disparità di trattamento con i deputati. Entriamo nel dettaglio.
 Il primo quesito posto al Consiglio di Stato era di metodo: con quale strumento normativo si possono tagliare i vitalizi? Basta una delibera interna di presidenza o ci vuole una legge, votata dall’intero Parlamento? La risposta era una sola: la legge. E’ in essa, infatti, che alberga la garanzia dei diritti fondamentali, tanto più quando si incide su di loro con trattamenti in pejus e retroattivamente. Solo la legge - non certo una delibera interna di presidenza - può assicurare quella rappresentatività e meditazione che la materia richiede. Ed invece la risposta dei giudici amministrativi è possibilista. Quasi a dire che, se serve, piace o conviene, si utilizzi pure l’atto monocamerale, anziché la legge. Quest’esito disarma il costituzionalista perché pare mettere sullo stesso piano legge e atto monocamerale: che sono, invece, strumenti normativi ben distinti per fondamento, limiti e finalità. Senza contare che - abbastanza singolare - il parere in questione è stato reso ex ante per il Senato (che non ha, ancora, deciso sul taglio), però vale ex post anche per la Camera (che, invece, l’ha già decretato). 

Si replicherà che da tempo i trattamenti previdenziali dei parlamentari si regolano con atti interni delle Camere e non con legge. E’ vero. Ma l’art. 69 della Costituzione è netto e ogni prassi parlamentare finora utilizzata deve cedere il passo: l’indennità dei parlamentari è «stabilita dalla legge». La pensione - non dimentichiamolo mai - è retribuzione differita. E il vitalizio è un’autentica pensione, quantomeno dal 2012, quando fu generalizzato il calcolo contributivo che vale per tutti i lavoratori. La questione tocca oggi un migliaio di ex deputati o di congiunti, ad es. le vedove. Solo una legge può toccare queste posizioni (Corte Cost., n. 154/1985 e n.120/2014). La legge sta alla base del “diritto al giudice” (artt. 24 e 113 della Costituzione) e senza legge non si può attivare un controllo di costituzionalità davanti alla Consulta. Contro questo patrimonio di garanzie, che vale per ognuno di noi, la Camera alza lo sbarramento, anacronistico, di una volontà interna, prevaricatrice, non giustiziabile. Eppure i parlamentari sono anch’essi soggetti alla legge, non sono una corporazione auto o eteroregolata, ma cittadini non più e non meno eguali degli altri. 

Il secondo quesito era sulla costituzionalità della retroattività. In altri termini, è compatibile con la Costituzione disporre per il passato? Infatti coi diritti fondamentali la retroattività si combina male. La tutela del legittimo affidamento su situazioni consolidate - come la percezione di pensione su cui si possono essere impostati progetti di vita - è principio fondamentale dello Stato di diritto (C. Mortati). La legge, di regola, non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo. Garanzia essenziale contro le azioni di ogni nuovo potere. Se eccezionalmente si può - ma con legge! - intervenire riducendo stipendi, salari, pensioni, indennità, è solo rispettando paletti insuperabili stabiliti dalla Corte Costituzionale. Insomma col centellino. Certo, tali limiti il parere li ha richiamati in finale ma solo mediante clausole generali - ragionevolezza, proporzionalità, sostenibilità, solidarietà, temporaneità ecc. e senza mai affondare nella “carne viva”. Clausole tanto elastiche da poterci entrare tutto e il suo contrario. Quanto “temporaneo” dev’essere, ad esempio, il contributo di solidarietà per derogare al principio di irretroattività? Un anno, due anni, dieci anni? E fin dove può spingersi la decurtazione? 20%, 30%, 50%? Eppure si parla, in alcuni casi, di decurtazioni fino all’80%, anche per chi non ha altri redditi. Arriverà un contenzioso senza fine, alla faccia della sicurezza giuridica che si voleva tutelare... Del resto, il parere non era atto a prevenire contenzioso perché la lite non è poi del giudice amministrativo. E così l’incertezza persiste e le liti hanno porte spalancate.
Il pasticcio è palese. Perché, allora, non azzerare e ripartire da capo, ma, stavolta, con una legge? La ragione si svegli dal sonno, prima che sia troppo tardi.

*Ordinario di Diritto Costituzionale e Comparato, Università di Firenze
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