Bentornati voucher, specchio dell’Italia

di Oscar Giannino
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Mercoledì 11 Luglio 2018, 00:05
Il cosiddetto decreto dignità, a dieci giorni dal Consiglio dei ministri che ne ha esaminato una bozza generale, non ha ancora raggiunto la sua formulazione definitiva. Che dovrà poi superare la bollinatura della Ragioneria e quindi andare all’esame e alla firma del Capo dello Stato, prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Nel corso della settimana scorsa è stato un fiorire quotidiano di annunci di sgravi fiscali, da eventualmente comprendervi. Si è parlato di una prima serie di tagli al cuneo fiscale. Problematica però: perché essendo non universale ma discrezionale solo per alcuni settori produttivi, potrebbe incorrere nella sanzione degli aiuti di Stato.

Poi si è affacciata anche l’ipotesi di estendere il tetto di reddito per professionisti e partite Iva, oggi ammessi al regime agevolato forfettario del 5% o del 15%. Tutto senza che alcuno abbia indicato coperture certe al minor gettito. Cosa che ha legittimamente indotto il ministro Tria a pregare tutti di smetterla con questi annunci, visto che ormai lo spread stabilmente si alza verso quota 240 mentre a inizio maggio era a 120. Anche il governatore della Banca d’Italia ieri ha ammonito a non scherzare, con ipotesi di aumento del debito pubblico. In realtà la fioritura di sgravi fiscali nasce da un fenomeno manifestatosi appena è stato chiaro il nocciolo duro del decreto-dignità.

Cioè la stretta sui contratti di lavoro a tempo, rendendoli più onerosi e meno reiterabili. Alla Lega è arrivata la forte pressione dal basso di imprese ed elettori che hanno manifestato la propria delusione, di fronte a un primo provvedimento del governo il cui rischio è di estendere il precariato invece di contenerlo. E anche ai Cinque Stelle è arrivata una pressione analoga, sia pur più tenue. E’ stata una reazione ovvia e più che prevedibile, non solo per il tenore del provvedimento ma soprattutto perché in campagna elettorale l’asse portante delle promesse dei due partiti è stato quello di tagliare oneri e dare più reddito, non il contrario. Naturalmente, la correzione di rotta ha visto anche il ripetersi del quotidiano rincorrersi di annunci pentastellati per contrastare la visibilità assicurata a Salvini dalla questione migranti. Vedremo in sede parlamentare se verrà corretto il giro di vite sui contratti a termine. Ma è in atto comunque una energica correzione di rotta. Che spiega il riaffacciarsi anche dei voucher, promossi e sostenuti dalla Lega, all’inizio respinti da Di Maio, e che ieri hanno iniziato a definirsi in una prima ipotesi di compromesso tra le due forze di maggioranza. La Lega vuole reintrodurli quantomeno nell’agricoltura, forse si aggiungerà anche il turismo, in aula si vedrà se procedere oltre, ma comunque è un primo passo per rimediare all’errore che nel marzo 2017 fu compiuto dal Pd abolendoli. Dopo la sconfitta referendaria sulla Costituzione, pendente il referendum della Cgil sull’abrogazione dei voucher per il lavoro occasionale, invece di battere la strada riformista di qualche opportuno correttivo e far cadere il quesito, il governo Gentiloni decise che non era il caso di esacerbare lo scontro con la Cgil e alzò bandiera bianca.

Eppure, dai numeri che analizzavano l’utilizzo dei voucher fino al 2016, essi non erano affatto quel via libera di massa a precarietà e truffe come venivano dipinti. I voucher nascono per il lavoro occasionale con la legge Biagi del 2003, ma non vengono applicati. Solo con successivi interventi tutti ad opera di esponenti della sinistra, da Damiano nel 2008 a Letta nel 2013, vengono di volta in volta estesi alla fine a tutti i settori del lavoro. Con l’idea che occorresse una modalità ad hoc per far emergere dal nero i lavoretti accessori, mentre nel frattempo con il Jobs Act sparivano i co.co.co e i co.co.pro (nel lavoro privato, non nella Pa naturalmente) accusati di essere odiose condanne al precariato. Erano i dati ufficiali raccolti dall’Inps, a dimostrare innanzitutto che i voucher rappresentavano lo zero virgola qualcosa per cento del totale dell’offerta di lavoro italiana, non la schiavitù di massa nei campi di cotone del Sud confederato. Ma, ancor più, a indicare inequivocabilmente che i voucher erano proprio prioritariamente utilizzati nel commercio e nel turismo, laddove la domanda è stagionale, e nei servizi alla persona e nella manutenzione degli impianti domestici, laddove la domanda è occasionale. E per una cifra media al percettore annuale inferiore ai 5 mila euro: esattamente a conferma dell’occasionalità delle prestazioni. E con un’elevatissima percentuale di percettori che dimostrava che di lavoro occasionale si trattava, non di copertura.

Certo, i dati mostravano che in alcuni settori, come l’edilizia e l’agricoltura, c’era il forte sospetto di abusi, Ma si trattava allora di affinare lo strumento, non di cancellarlo: come giustamente ieri ha ricordato il presidente dell’Inps.
Perché l’abolizione dei voucher non si è affatto tradotta in un analogo ricorso ai contratti di lavoro a intermittenza: il che significa che abolire i voucher ha ingrossato le file del lavoro in nero. Ed era facile prevederlo, perché i contratti a intermittenza sono molto più rigidi dei voucher. E per di più applicabili solo a una lista esclusiva di una cinquantina di mansioni e categorie stilata in un regio decreto del 6 dicembre 1923: 95 anni fa. Lega e Cinque Stelle stanno ragionando su come reintrodurli in forma ristretta, e con precisi criteri identificativi dei percettori. L’opposizione di allora è oggi maggioranza. Resta da capire se la maggioranza attuale eviterà verso la Cgil analoga sudditanza che improvvisamente piegò il Pd. E se il Pd stesso in aula, ora che è opposizione, farà a propria volta marcia indietro rispetto alla bandiera bianca issata nel 2017. Sono i paradossi della politica italiana, dove spesso non conta il merito delle cose, ma la prevalente volontà di lanciare segnali politici ed elettorali. Sfidando la realtà dei numeri.
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