L’equivoco buonista/ Cambiare l’esistente non è cattivismo

di Mario Ajello
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Mercoledì 20 Giugno 2018, 00:10
Umberto Eco ha azzeccato l’«Elogio di Franti», il cattivello che prendeva i passerotti per metterli in padella e faceva altre piccole perfidie. Mentre l’altro, Garrone, quello a cui il maestro deamicisiano si rivolge così: «Tu sei un’anima bella», a Eco stava meno simpatico e non solo a lui. Ora però, da quando il cattivismo prova a battere qualche colpo, tutti riscoprono il Garrone che è in loro e la sociologia fasulla del libro “Cuore”. Invece aveva ragione Eco: il cattivismo di Franti «assumeva un valore correttivo, costituiva l’ultimo grido del buon senso ferito». 

Il cattivismo, che non è cattiveria, così come il buonismo non è bontà, non c’entra con il razzismo e nemmeno con l’odio. E comunque, questa dicotomia va portata fuori dal terreno o dal ricatto etico, e tra buonismo e cattivismo occorre scegliere il pragmatismo. Ossia la voglia di innovare, al netto di timori ideologici del tipo: chi vuole cambiare mette a repentaglio l’ordine costituzionale, attenta ai valori democratici. 
C’è un modo di dire: il sazio non può credere al digiuno, perché come fa a capire la fame di un altro? Un po’ vale anche per il buonista. Sta nella condizione riposante di chi si sente a posto eticamente, vive la tranquillità di chi non può essere attaccato perché è (apparentemente) nel giusto, si gode il suo relax morale e esistenziale anche se fuori da quello c’è il disastro.

Il “cattivo” è in una posizione molto più faticosa. La parola proviene da «captivus», prigioniero. E il prigioniero si deve sbattere, si deve liberare, non può essere conservatore perché ha necessità di rompere la condizione di partenza ed è costretto ad essere faticosamente iper-attivo. Al contrario del suo dirimpettaio, che vive di idee ricevute e sta comodo nel solito tran tran. 
Il cattivismo, se non è fine a se stesso, rappresenta insomma la ricerca di una soluzione pratica diversa dall’accoglienza onnicomprensiva che buonisticamente è stata adottata in questi anni e platealmente è fallita. Insieme al mito della società multi-culturale per la quale vale l’immagine perfetta coniata da Regis Debray, intellettuale francese di sinistra: «A tenere culture diverse troppo vicine, si finisce per fare come due polsi sfregati l’uno contro l’altro. A lungo andare, si crea l’eczema». 

E comunque: che cosa c’è di cattivo, di crudele o addirittura di trucido nel dire, secondo una comune opinione politicamente trasversale, che bisognerebbe accogliere soltanto chi ne ha diritto, e così non è stato fatto in questi anni, e unicamente sulla base delle leggi vigenti, che spesso sono state tradite dai passati governi? Se cattivismo significa battersi per uno Stato che funzioni, ossia che tuteli la sicurezza e la pubblica felicità dei cittadini, non bisogna avere paura del cattivismo, e scambiarlo per assenza di pietas. Ma riconoscerlo, se resta sobrio anche rispetto a se stesso, come un atto di lucidità. Verrebbe, di nuovo, di dare ragione all’«Elogio di Franti», il cui autore non è certo un fascista, dove si legge che a volte il Bene, cioè in questo caso il falso solidarismo, «appare con il volto del Male che, viceversa, altro non è che il maieuta di una diversa società possibile». 

Mettere in discussione l’esistente è una scommessa e può andare male. Ma se l’approccio conservatore e conservativo è fallito, provare un cambio di prospettiva è nelle cose. Specialmente, come sta accadendo per l’Italia, se l’approccio cattivista/pragmatico non è in contraddizione rispetto al quadro di riferimento europeo. Basti pensare alla Francia di Macron, che ha un approccio estremamente duro nei riguardi dell’immigrazione, ma anche alla Germania della Merkel il cui ministro degli esteri, nel Paese accogliente per eccellenza, ha una linea di estrema selettività sugli ingressi. 

Ed era un cattivista Voltaire, il quale voleva «schiacciare l’infame» (cioè la Chiesa), eppure è stato il massimo illuminista? Diderot era uno che sosteneva che «ogni cosa va esaminata, dibattuta, indagata senza eccezione e senza riguardo per i sentimenti di alcuno». Il che forse è un’esagerazione, e tuttavia il razionalismo illuminista era aggressivo nella sua ansia di cambiamento. Ma nessuno mai lo ha giudicato incivile. Mentre qualcuno più di recente, un genio come Giorgio Manganelli, nelle sue pagine intitolate «Il diritto rende ma è difficile» ha avvertito: «Non impunemente si scatenano nel cuore dell’uomo i demoni della bontà». E i risultati, a giudizio della stragrande maggioranza degli italiani, non sono stati edificanti. 
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