M5S, miti infranti/ L’onestà perduta nella mancata “casa di vetro”

di Mario Ajello
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Giovedì 14 Giugno 2018, 00:10
Doveva essere il banco di prova dell’onestà-onestà-onestà. Avrebbe dovuto simboleggiare la discontinuità e la trasparenza. Invece, lo stadio della Roma è diventato il monumento, che non c’è, alle ombre e alle collisioni, alle pastette e al do ut des. Il fiore all’occhiello del “Campidoglio casa di vetro”, lo stadio come volano del consenso, si è trasformato così nel tallone d’Achille del movimento 5 stelle. Ma soprattutto in questo affaire si è reiterata - a dispetto della retorica del “cambiamento “ - la tradizione classica dei poteri che spadroneggiano e dei partiti che diventano cinghia di trasmissione di interessi particolari, in un intreccio tra imprenditoria, politica e amministrazione che già in altre occasioni, ma questa è la più inaspettata e quasi una nemesi per M5S, ha danneggiato Roma e i suoi cittadini. 

Intendiamoci, nel sistema Parnasi, ancora una volta non si salva quasi nessuno. Nel 2014, c’era la giunta Marino quando cominciò questa storia nata male e finita peggio. Ma nell’alternanza di chi governa la Capitale e nella diversità dei partiti - il Pd, Forza Italia, 5 stelle, tutti in varia maniera e a diversi livelli coinvolti nel peggio - la logica della continuità e dell’opacità è quella che s’è imposta. E la nuova classe dirigente capitolina è finita con il somigliare a quella di prima. Come se il sistema del passato si fosse voluto fare beffa di ogni sbandierata diversità. 

Ma c’è un continuismo, in tutto ciò, anche rispetto alle recenti vicende della giunta Raggi. Questo sembra un caso Marra al quadrato. Che mette a nudo la abituale riluttanza del movimento ad interagire con una realtà complicata e sfaccettata, che richiede competenza ed esperienza, temendo di sporcarsi le mani. Salvo poi ricorrere a figure terze o ad esponenti molto intraprendenti. Però, ed ecco il nocciolo della questione Tor di Valle, si può restare prigionieri di questa delega. Si rischia di venire stritolati da questo espediente. Che non è stato l’unico. 

Ci si è approfittati perfino di Totti, e ha spopolato l’hashtag #famolostadio, per questa operazione calcistico-affaristica - una delle più importanti speculazioni immobiliari in Europa e la più grande variante urbanistica ad hoc mai approvata nella Capitale - e che è lievitata nei suoi errori, nelle sue scempiaggini e, secondo la Procura, nelle sue malversazioni. Per poi diventare adesso il baratro dei cinque stelle proprio mentre la loro ascesa al governo doveva servire tra l’altro per aiutare il movimento ad uscire secche capitoline. Certificate, in piccolo, ma il segnale è chiaro, anche dal flop elettorale dell’altro giorno nelle elezioni nei municipi. 

Lo scivolamento nella questione giudiziaria si presenta dunque come l’ennesimo passaggio di una via crucis che si è voluta percorrere a dispetto di tutto. Tra curve e inversioni a U, buche e sobbalzi, proclami e contro-proclami. Il No a Marino quando tutto cominciò, il No ribadito in campagna elettorale, il successivo Nì, i dubbi di Beppe Grillo (“Se lo stadio si fa in una zona non a rischio esondazione del Tevere, è meglio”), il Sì a certe condizioni (#unostadiofattobene ha twittato la sindaca fino a poche ore prima dell’esplosione dello scandalo), il via le torri di Libeskind, la cacciata dell’assessore Berdini perché troppo tiepido o ostile, e via così con l’uso elettoralistico del progetto cambiato e ricambiato purché sopravvivesse. 

Si viene presi da tristezza a ricordare - è soltanto una scena tra le tantissime - quei gazebo piazzati nelle strade di Roma alla vigilia del ballottaggio tra Raggi e Giachetti, in cui gli attivisti M5S parlavano così: “Gli altri hanno rubato tutti quanti, noi resteremo gli unici incensurati”. Ora è andata come è andata, molto male. E una cosa è chiara in questa vicenda: disinteresse nei confronti di Roma di chi dovrebbe tutelarla e onorarla. Poi c’è la conferma che è facile fare gli onesti prima che la propria onestà venga messa alla prova, come se la diversità etica - per essere tale e non solo un pennacchio propagandistico - non dovesse avere la sua sperimentazione pratica. Nella quale spesso finisce per vanificarsi, danneggiando l’intera comunità e togliendo ulteriormente fiducia all’istituto della politica. In cui, oltre al prerequisito obbligato della rettitudine, deve valere la competenza e la capacità di realizzazione in ossequio a quella che gli illuministi chiamavano “la pubblica felicità”. Qui sono mancati tutti questi ingredienti. Sostituiti da improvvisazione e, stando ai pm, corruzione.

Gli illuministi nella “casa di vetro” non sono entrati, perché la casa di vetro non c’è. E Roma, ancora una volta, è costretta a specchiarsi nel fango. 

 
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