Valerio Perogio: «Con il baseball alleno i bambini a emozionarsi»

Valerio Perogio: «Con il baseball alleno i bambini a emozionarsi» (foto fabiolovino.it)
di Valentina Venturi
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Sabato 21 Aprile 2018, 14:05
Valerio Perogio, dopo anni da inviato per le strade di Roma munito di telecamera e microfono, lascia il giornalismo e prende in mano il guantone. Da tre anni a Rebibbia è l'allenatore di uno sport davvero poco italiano: il baseball.

Cosa è successo?
«Questione di nascita: sono alto 1.87 e sono nato a Nettuno. E Nettuno è la città del baseball, non c'è molto altro da fare. A sette anni ero nelle giovanili, a 12 divento il miglior lanciatore europeo e a 18 entro in serie A. Sembrava una carriera avviata, tanto che nel 2002 vinco una borsa di studio e parto per il St. Francis College a Brooklyn. Ma resisto sei mesi».

Lascia New York per Roma?
«Lo ammetto, l'ho fatto per amore. Ero giovane, ingenuo e la relazione finì dopo poco. Riprendo a lanciare e nel 2005 gioco con la Palfinger Reggio Emilia, ma anche questa avventura dura poco. Nell'autunno 2006 mi trasferisco a Roma e abbandono lo sport».

Diventando giornalista.
«Lavoravo in una piccola agenzia di stampa multimediale che mi assorbiva completamente. Ho seguito la campagna elettorale tra Veltroni e Berlusconi, le emergenze cittadine e sono diventato pubblicista. Dimenticandomi del gioco di squadra».

Quindi il 2015 è un ritorno alle origini, una rinascita.
«Una gioia infinita: seguo dodici giocatori under 15 della Nuova Roma Baseball. Il campo è dentro i 51 ettari di verde del parco regionale urbano di Aguzzano, dietro il carcere di Rebibbia. Tra squadra e campo definisci scalcinati è un eufemismo, siamo un branco di serpentelli!».

Per questo vi chiamate Snakes?
«Il campo è in mezzo alla giungla ed è pieno di serpi. Per fare più effetto l'abbiamo tradotto in inglese».

Ci sono ragazze in squadra?
«Fino ai quindici anni possono giocare maschi e femmine e gli Snakes hanno quattro giocatrici fenomenali: sono più sveglie e divertenti, non c'è discussione.

Quali differenze tra l'essere giornalista o coach?
«Entrambe hanno un forte potere d'ispirazione, ti fanno toccare la realtà, ti senti dentro le cose. Però con il giornalismo non lasciavo un segno, le risposte che mi davano gli intervistati non le sentivo mai vere. Stessa sensazione come addetto stampa politico: un vuoto teatrino di dichiarazioni e frasi di circostanza».

Da giocatore ad allenatore il passo è breve?
«Non lo è mai, anzi. Prima anche solo l'idea di allenare dei bambini mi faceva venire le bolle! Poi cominci e mentre lo fai torni te stesso. Difficile, spaventoso ma anche eccitante».

Cos'ha imparato?
«Un ragazzo di quindici anni non lo alleni fisicamente: lo formi attraverso le emozioni, con il gioco di squadra. Per riuscirci esci dalla testa del giocatore e guardi negli occhi quei visi spaventati. Allenare significa guidare attraverso la paura».

La paura è importante?
«Certo. Li guardo e penso a quanta ne avevo io in campo; temevo di deludere, di non riuscire o di fallire. Ora spero che diventino la migliore versione possibile di se stessi. Perché lo sport non fa bene al corpo, fa bene alla testa».

Ossia?
«Il baseball mi ha distrutto una spalla, ma mi ha insegnato a misurarmi con la competizione, allenandomi alla vita e al fallimento».

Baseball maestro di vita?
«Certamente. Sul campo sei solo, ma nel contempo in squadra. Le partite durano anche due ore e mezza e il gioco in sé non è rapido, è fatto di fiammate che durano secondi. Un up e down logorante, hai tempo per pensare e riflettere; ma poi ad un certo punto della partita toccherà inesorabilmente a te e non potrai tirarti indietro».
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