La svolta militare/ Le ambizioni di Parigi come perno dell’Europa

di Marco Gervasoni
4 Minuti di Lettura
Lunedì 16 Aprile 2018, 00:26
Il presidente francese, Emmanuel Macron, beata modestia, si è più volte paragonato a Giove. Non è detto però che i fulmini scagliati, assieme a Trump e a May, su Damasco alla fine possano giovare a lui e al suo paese. La partecipazione della Francia alla spedizione era infatti molto meno scontata di quanto non fosse quella degli Usa e del Regno Unito. Macron aveva infatti espresso più volte l’intenzione di abbandonare l’approccio «neo-conservatore» e bushiano dell’interventismo democratico, in cui invece i suoi due predecessori, Sarkozy e Hollande, avevano largheggiato, in Libia il primo e in Mali il secondo. Mentre la politica estera gollista-mitterrandiana era fondata sul realismo politico - ricordiamo la dura opposizione di Chirac alla guerra in Iraq - , la nuova linea interventista di Sarkozy e poi di Hollande, benché sempre rivolta a tutelare gli interessi francesi, introduceva invece una retorica dell’«esportazione dei diritti umani» e mirava in più ad estendere l’egemonia politica sui territori presi di mira. Benché in un’intervista televisiva di ieri sera abbia ancora negato di seguire una politica estera «neo-conservatrice», dichiarando che «la Francia non è in guerra con la Siria », Macron è apparso comunque più interventista di Trump e May. Non solo l’Eliseo si è spinto per primo a giurare sulle prove dei gas siriani, ma è il solo del tre a evocare un regime change (cioè, via Assad) come obiettivo della missione. Tanto che, sempre ieri sera, ha affermato di essere stato lui a convincere Trump a restare in Siria. Ma ancora pochi mesi fa Macron, diversamente da un Hollande sempre ostile ad Assad, pensava che il dittatore siriano dovesse rimanere, per evitare una deriva «libica» della sua uscita di scena.

Perché questa svolta di Macron? La spiegheremmo con tre ragioni. La prima causa è la persistenza del «deep state», come si dice negli Usa, cioè gli imperativi della diplomazia e dell’alta burocrazia, che Macron riesce meno a controllare di quanto sperasse. La diplomazia francese è ancora, come ai tempi di Sarkozy e di Hollande, interventista, e tale probabilmente resterà anche con Macron. Questa considerazione vale pure per Trump, anch’egli eletto sul rifiuto della dottrina neo-con ma costretto ad avvicinarvisi per via della forza avvolgente del «sistema». E se Trump, che è un outsider, ha dovuto piegarvisi, figuriamoci Macron, che in qualche modo da quell’establishment proviene. La seconda ragione dell’interventismo macroniano va inquadrata sul piano interno. L’azione è infatti servita al Presidente per confermare che il campo politico non è più diviso tra destra e sinistra ma tra populisti ed europeisti e soprattutto a spaccare i neo-gollisti. Contro i bombardamenti, e quasi negli stessi termini, si sono schierati infatti la destra radicale di Le Pen, la sinistra estrema di Mélenchon e una parte dei Républicains. Al contrario a favore si sono detti socialisti e l’altra metà dei Républicains, i seguaci di Alain Juppé. Lo vedremo oggi, quando il Parlamento francese discuterà la missione, pur senza votare. Finché rimarrà in voga questa rappresentazione, Macron non dovrà temere per il suo potere. La terza motivazione della svolta è ancora più ambiziosa.

Il presidente francese vuole dimostrare di essere il capo militare e politico dell’Europa, e come tale mediare con Trump, con Putin (e con l’Iran).
Anche perché deve aver capito che la Germania non è più tanto favorevole alle sue proposte di riforme dell’eurozona, come ha scritto l’editorialista del «Financial Times» Wolfgang Munchau, con la Francia per ora ancora partner economicamente più debole di Berlino. L’Eliseo intende supplire a questa mancanza con la supremazia militare. La svolta interventista di Macron non è priva di rischi. Il primo è quello di far apparire Macron eccessivamente in continuità rispetto a Sarkozy e a Hollande. Il secondo consiste nel far lievitare volutamente le estreme rosse e nere, sempre più radicalizzate, che alla fine però potrebbero far saltare tutto. La terza è che così muovendosi, Macron incrina il rapporto con Merkel, già meno buono rispetto a mesi fa - infatti pare la Cancelliera non abbia molto gradito il dinamismo del giovane alleato, giudicato eccessivo. Sulla Libia e sul Niger noi italiani avevamo già intuito i contorni di questo progetto macroniano. Una ragione in più per non cadere nell’illusione dell’«amicizia naturale» tra i nostri due paesi, che naturale non è affatto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA