La ghigliottina? C'era già nella Capitale

La ghigliottina? C'era già nella Capitale
di Fabio Isman
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Domenica 1 Aprile 2018, 10:28 - Ultimo aggiornamento: 3 Aprile, 15:06

Forse, monsieur Joseph-Ignace Guillotin (1738 - 1814), medico e politico famoso per la macchina di morte che ne reca il nome, introdotta in Francia nel 1789, alla vigilia della Rivoluzione, più che inventare il marchingegno, ha solo perfezionato un meccanismo esistente. Alcuni vogliono che a Roma, qualcosa di simile sia esistita per un paio di secoli, fino al 1870. La chiamavano, appunto, «mannaja romana». Esemplari del genere erano già in Inghilterra nel 1307: una stampa ci mostra l'esecuzione in Irlanda di un tale Murdoc Ballag. A Roma, è forse stata responsabile pure della fine di Beatrice Cenci, nel 1599; nel 1885, lo diceva Costantino Maes: «Macchinetta simile alla ghigliottina». Ma altri parlano di una spada; e a fine Ottocento, sotto Castel Sant'Angelo, appunto edificando i muraglioni, fu trovata una «spada di giustizia» sul greto, vicino a dove era il palco delle esecuzioni: ora, è al Museo criminologico. La mannaja era semicircolare, ma non obliqua, come quella d'Oltralpe, che, giurava l'inventore, dava la morte «in un batter d'occhio: l'uomo non è più, appena percepisce un rapido soffio d'aria fresca sulla nuca». In più, quella nostrana precipitava da un'altezza minore. Prima che l'Italia arrivasse a Roma, le torture vi erano in gran voga. Ed esistevano luoghi deputati: dove la folla potesse assistere. Spesso, ad inizio del Carnevale: perché gli astanti fossero più numerosi. Oltre che al Castello, le pene capitali, di solito, in Piazza del Popolo. L'ultima volta, sembra, nel 1868, il 24 novembre: Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, colpevoli dell'attentato ad una caserma, 23 zuavi francesi morti nell'esplosione e quattro cittadini; una targa ricorda i carbonari: «Condanna ordinata dal papa, senza prova e senza difesa». Nel 1870, ancora un'altra: ma a Palestrina. Mentre il 1 agosto 1864, usa l'ultima volta la macchina francese Mastro Titta: sul brigante Antonio Demartino, a via dei Cerchi.

MASTRO TITTA
Il boia di Stato si chiamava Giovanni Battista Bugatti; se si può dire così, esordisce il 22 marzo 1796: impicca un giovane di Foligno, Nicola Gentilucci. Per gelosia, aveva ammazzato un prete e un cocchiere. Si esibirà in 516 occasioni; e nel 1817, la morte che infliggerà a tre ladri impressionerà perfino George Gordon Noel Byron, per tutti soltanto Lord Byron. Invece, Alexandre Dumas, nella piazza appena risistemata da Giuseppe Valadier, assiste a una pena capitale nel 1835: quando trascorre tre settimane all'Hotel de Londres, in piazza di Spagna; ne racconterà nel Conte di Montecristo, pubblicato in due anni dal 1844: spiegherà addirittura come funziona la mannaja. Anche il mantello rosso scarlatto che Mastro Titta indossava quando «varcava il ponte», traversava il Tevere per andare al suo lavoro, è esposto al Museo criminologico. Nel tempo libero dai suoi, diciamo, passatempi, gestiva una bottega vicino a casa, in vicolo del Campanile 2: verniciava ombrelli; il lavoro di boia gli è poi valso una pensione mensile di 30 scudi.

LE TORTURE
Le pene erano varie e molteplici. La «frusta», per esempio, spettava ai ladri. Caricati su un somaro, venivano condotti per la città, come ammonimento. E giunti al «cavalletto» in via del Babuino, provavano tutti i dolori del nerbo di bue. Riservati perfino alle donne «dishoneste», che andavano «in carrozza»: cioè le prostitute. La «corda» si dava invece a via del Corso, angolo della Frezza: il poveraccio, appeso a una carrucola, le mani dietro la schiena, era sollevato più volte; terribili slogature. Giuseppe Gioachino Belli scrive che chi l'ha sperimentata «manco era bbono ppiù a sservì la chiesa / manco a ffa er ladro e a gguadaggnà ssur vizzio», cioè esercitando l'ignobile mestiere di ruffiano. Un'altra tortura era la «mordacchia»: un pezzo di legno in bocca per impedire al condannato di lamentarsi; ma anche di parlare, quando il suo dire era temuto; o di imprecare.

 
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