Il rapporto del ministero dello Sviluppo economico che oggi pubblichiamo rappresenta dunque il punto di partenza imprescindibile per qualunque tentativo di risollevare tutti insieme - governo, Regione, Comune, sindacati e imprese - Roma dal piano inclinato su cui sta scivolando da anni. Tra il 2008 e il 2016 il Pil della Capitale è calato del 6%. E anche se il numero delle società è cresciuto dell’1,6%, le imprese più grandi sono diminuite del 13%, lasciando spazio al boom del commercio ambulante (più 30%) e degli affittacamere (più 150%). È il profilo di un’economia che perde peso e che, anche in un settore in forte avanzata come il turismo, premia solo l’offerta “povera”.
Ne esce il profilo di una Disneyland nemmeno tanto organizzata (al quarto posto come numero di pernottamenti dietro Berlino e con gran distacco da Parigi e Londra), un lunapark per visitatori low cost, che lascia alle Capitali concorrenti la fetta più ricca e ambita del mercato.
Ma non basta: la radiografia del Mise ci consegna una città tartassata, anche dal Fisco. Rispetto a Milano, per esempio, la pressione fiscale è superiore sia per le imprese (più 24%) sia per i lavoratori (dal 40 al 57%). Ce n’è abbastanza per capire come la crescita nella Capitale d’Italia sia inibita alla radice.
Proprio per questo ben venga il tentativo di avviare il tavolo da parte del ministro Calenda. Con una avvertenza: Roma non può finire nel tritacarne della imminente campagna elettorale e diventare solo un argomento utile al gioco a rimpiattino tra i partiti. Il Paese dà i primi confortanti, e speriamo duraturi, segni di ripresa. Roma non può restare il vagone di coda. La politica, per una volta, impari la lezione: la forza e le ricchezze che possono fare grande Roma, sono diventate paradossalmente nel tempo la sua zavorra: declassando e impoverendo l’intero Paese.
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