Al Bano: «Io e Romina abbiamo ritrovato il nostro sole»

Al Bano: «Io e Romina abbiamo ritrovato il nostro sole»
di Malcom Pagani
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Domenica 16 Luglio 2017, 00:50 - Ultimo aggiornamento: 21 Luglio, 17:20

Sole sul tetto dei palazzi in costruzione: «Avevo trovato un impiego come imbianchino e per dormire senza spendere occupavo una stanza dell’appartamento di cui dipingevo le porte al Giambellino. Mi svegliavo con le prime luci del giorno e quando avevo fame, facevo di necessità virtù. In tasca non avevo un soldo e con le ultime mille lire andai alla Standa per comprare del cibo. Mi concentrai sullo scatolame. Sullo scaffale c’erano confezioni piccole, con la scritta “Simmenthal” e contenitori cinque volte più grandi, con l’etichetta “Ananas”.
 

 

 
“Tra le due carni - pensai - la seconda mi conviene”. Ero ignorante, dell’ananas non avevo mai sentito parlare e la frutta più esotica che conoscevo era la banana. Mia zia la mangiava per ragioni di salute e ogni tanto, di nascosto ne fregavo una. Da allora e per un mese, nel tugurio in cui vivevo, il mio menù a colazione, pranzo e cena fu pane e ananas». Milano, 1961, l’alba del signor Carrisi, figlio di Carmelo e Jolanda, in arte Al Bano.
 
«Lasciando una Puglia selvaggia, partii per la Lombardia all’inizio di maggio. Con l’olio, le friselle, un vestito, un paio di scarpe e molti sogni in valigia. Mio padre mi avrebbe voluto contadino, mia madre professore. Non sono riuscito ad accontentare nessuno dei due ed è stato meglio così. Ero nato per cantare e la voce, un dono di Dio, la utilizzavo già nei campi, in mezzo ai braccianti, fin da bambino». A 74 anni, mentre viaggia tra Russia, Austria ed Estonia riempiendo ancora palazzetti e arene, Al Bano non ha dimenticato niente: «Mi sono fatto un mazzo incredibile».

Fin da bambino? 
«Iniziai a lavorare in campagna a 8 anni. Nel periodo della trebbiatura, quando il grano si tagliava ancora a mano, con i contadini trascorrevo ogni domenica».
 
Lei era l’eccezione? 
«Ero la regola. Forse il figlio del ricco del paese era esentato, ma per il resto, nel 99 per cento dei casi, noi bambini lavoravamo tutti nei campi. C’era bisogno di mani a quel tempo». 

Che tempo era? 
«Un’epoca che alla teoria anteponeva la necessità. Mio padre era analfabeta. Per comunicare con mia madre imparò a scrivere sotto le armi nell’inverno albanese. Lei si immedesimò nei suoi tormenti, fino a voler provare sensazioni simili. Dormiva senza coperte: “Se non posso essere con te, voglio provare le stesse cose”. Quello tra papà e mamma fu un amore immenso. Quando lui se ne andò, morì qualcosa anche in lei». 

La musica era un’aspirazione? 
«Di studiare non mi importava niente. Persi l’interesse per lo studio molto presto e quando mi bocciarono al secondo anno delle magistrali mollai tutto». 

Era un pessimo studente? 
«Ero bravo a disegnare. Per aiutarla, passavo i miei schizzi alla ragazza di cui ero segretamente innamorato. Al momento del voto però lei prendeva 8 in pagella e io 4. La mano era la stessa e io non capivo. Non protestavo con i professori perché avrei sputtanato entrambi, però poco a poco mi passò la voglia di stare tra i banchi. Un giorno la professoressa di chimica mi sequestrò il quaderno. Tra le pagine, al posto delle formule, c’erano solo parole. Le mie prime canzoni. Lei si irrigidì: “Che c’entrano con la mia materia?” domandò. “Forse è la mia chimica” risposi». 

Era una risposta sincera.
«Avevo sentito il sacro fuoco dell’arte. Quando lo avverti, come cazzo fai ad allontanartene? La prima chitarra, nera, bellissima e lucente, la acquistai per corrispondenza vendendo i miei disegni ai ragazzi che non sapevano tenere una matita in mano. Costava 5.000 lire. Ne avevo solo 4.000 e i soldi che mancavano li chiesi alla ragazza di cui le parlavo prima. Volevo sapere se il mio sentimento era in qualche modo corrisposto». 

Ed era corrisposto? 
«Mi spedì una lettera e dentro il foglio c’erano mille lire. Mi dispiace non averla conservata, quella lettera. Le dedicai il mio primo disco. La gratitudine è un valore, un sentimento che mantiene un sapore di umanità».
 
Quanta umanità trovò a Milano nei primi anni ’60? 
«A volte molta, a volte pochissima. C’era chi ti considerava soltanto un terrone da sfruttare e chi ti apriva la porta di casa sua. Dopo il lavoro da imbianchino ne trovai uno da cameriere. I capi mi trattavano come uno schiavo nell’Alabama dell’800. Loro a braccia conserte, a ridere di me e io a fare le scale avanti e indietro come una bestia da soma carico di piatti. Un giorno in cui ero più stanco di altri, mi ribellai e spaccai una sedia: “Forse non ci siamo capiti, mi avete rotto il cazzo”. La signora Negri, la proprietaria del locale, capì che avevo ragione da vendere e non mi punì. Gli altri, da allora in poi, mi rispettarono». 

Dopo il lavoro da cameriere arrivò quello alla Innocenti. 
«Di mattina assemblavo Mini Minor e di sera suonavo. Ero stato ingaggiato dal Clan di Celentano. Guadagnavo 65.000 lire al mese e 50.000 le spedivo a casa. Quando raggiunsi il mio primo grande successo con “Nel sole”, dopo sei anni di dura gavetta milanese, mandai l’assegno di 8 milioni di lire in Puglia. Così, senza neanche cambiarlo».

Lo avrebbero fatto in pochi. 
«Ho fatto tante cose da coglione nella vita, ma non me ne pento. Avrei potuto comprare un appartamento a Milano, togliermi qualche soddisfazione, ma non avevo vizi e di quei soldi i miei avevano più bisogno di me. Ero felice di poterli aiutare. Quell’orgoglio, se ci penso, posso ancora sentirlo sulla pelle». 

Lei non ha paura della retorica
«Io non ho paura dei sentimenti. Non ce l’ho mai avuta. Sono stato sempre letto superficialmente, come il mentecatto che andava a Sanremo mentre gli altri si facevano belli con l’impegno. Mio padre me lo aveva sempre detto. Mi aveva avvertito: “Non ti mischiare con i politici, si servono di te e quando non gli fai più comodo ti gettano via”. Non ho mai dubitato che avesse ragione». 

Sul trasferimento a Milano sua madre aveva qualche dubbio. 
«Pensava che la Lombardia fosse pericolosa, lasciva, tentatrice: “Attento figghiu meo, a Milano le fimmine suntu quasi tutte zoccole”. Aveva torto, però è vero che prima del successo le ragazze non mi guardavano neanche in faccia e dopo, accadde a Rimini, me le ritrovavo sotto il letto, in camera, senza sapere neanche il nome di battesimo. Mamma e papà, comunque, a Milano non avrebbero mai potuto vivere. Per due settimane li convinsi a trasferirsi. Papà mi disse: “Vengo, ma devo vendere il mulo. L’animale si è affezionato a me, come faccio?”. “Ne compri un altro”. Mi diede retta, con dolore. A Milano non si raccapezzava: “Dico a tutti buongiorno e non mi risponde nessuno” lamentava. Era rimasto all’epoca della contrattazione: se saliva sul tram e il biglietto costava 100 lire, lui pretendeva sorridendo di abbassare il prezzo a 80. Veniva da un altro mondo». 

E dopo quelle due settimane? 
«Tornarono di corsa in Puglia e mi consigliarono di fare presto lo stesso: “Questi non sono umani”». 

Come arrivò al successo? 
«Il primo colpo di fortuna fu la cassa integrazione alla Innocenti. Mi liberò molte ore, ore che sottratte alla fabbrica spesi per passare più tempo con il Clan. Il secondo fu l’incontro con il maestro Pino Massara».

Perché? 
«Massara fu il primo a farmi fare un provino con il Clan, il primo a farmi incidere un disco e il primo a suggerirmi, dopo un paio di anni di teatrini e serate con il gruppo di Adriano, di cambiare aria: “Devi andare via perché qui per te non ci sono prospettive”. Mi propose un triennale con la Emi. Accettai, ma a me l’ambiente del Clan, dove la futura moglie di Battisti faceva la segretaria, piaceva. Arrivavo dalla fabbrica e nel ’64 il Clan mi sembrava la casa dei sogni, il paradiso». 

Con Celentano che rapporti ebbe? 
«Lo sfioravo, lo vedevo pochissimo, mi intimidiva. Lo osservavo: pareva una divinità. Gli dicevano tutti “sei un grande” e poi, anche nel Clan e soprattutto nel Clan, appena si voltava parlavano male di lui. Quando nel 1967 ottenni il mio trionfo, i giornali mi inseguirono per demolirlo: “Ti mettiamo in copertina, che ti costa?”. Non ne avevo motivo e rifiutai indignato». 

Nel 1967 “Nel sole” le cambiò la vita. 
«Vendette quasi un milione e mezzo di copie. Il brano era una sintesi di due canzoni che avevo scritto e Massara, in una delle sue tante intuizioni geniali, seppe guidarmi con sapienza alla sintesi. Arrivarono i musicarelli. Ne feci 7, tutti più o meno inguardabili. Sapevo che rappresentavano lo sfruttamento di “Nel sole” e che essendo ben pagati avrebbero aiutato ulteriormente la famiglia. Mi stava bene così. L’ultimo della serie, “Angeli senza paradiso” di Fizzarotti sulla vita di Franz Schubert non era neanche male e io stavo diventando pure bravino, ma a quel punto la vena di quel genere si andava esaurendo e in fondo non far parte del cinema non è mai stato un vero rimpianto». 

Il giorno del suo matrimonio lo ricorda? 
«Nella chiesa di Cellino San Marco entravano sì e no 400 persone. Il 26 luglio del ’70, il giorno della sauna, si presentarono a migliaia».
 
Il giorno della sauna? 
«Entrammo tutti asciutti e ne uscimmo zuppi di sudore. La mia ex suocera, che la sapeva lunga, vista la mala parata si sistemò sul tetto della chiesa e osservò tutto dall’alto. Quel “sì” lo pronunciarono in cinquemila. E chi se lo dimentica quel giorno?». 

Costruiste il vostro nido, “Curtiprizzi”, “Corte di pietre” e i giornali scrissero che Barbablù stava rinchiudendo la principessa americana in un luogo lontano e inaccessibile. 
«La Puglia era il sogno di Romina: “Mi ricorda la California” diceva e io che amavo la mia terra, ma non avevo alcuna intenzione di tornarci e anzi ero scappato, mi feci convincere. Scrissero tante cazzate, i giornali. E i due simpatici figli di puttana, Roberto D’Agostino e Renzo Arbore, calcarono la mano anche anni dopo ne “Il peggio di Novella 2000”. Gli feci causa. Non la vinsi, ma la intentai». 

Che scrissero D’Agostino e Arbore in quel libro? 
«Oggi siamo amici, ma all’epoca mi fece arrabbiare una battutaccia su Romina. Giocando su Roma e Creta le diedero della cretina. Ci arrabbiammo. Oggi è acqua passata: se ci vediamo, con Renzo e Roberto ci abbracciamo». 

Torniamo alla politica? Lei disse che rifiutando di prendere una precisa posizione nei confronti di un partito che aveva un peso determinante nel mondo dello spettacolo, aveva decretato la sua morte artistica
«Confermo. La sinistra non mi attraeva in alcun modo, anche se forse ero molto più di sinistra di tanti altri e avevo cantato “Il ragazzo che sorride” di Theodorakis, acerrimo avversario dei colonnelli greci, ad Atene davanti a 90.000 persone in delirio. La violenza politica che vedevo dietro le bandiere e gli slogan però mi disgustava. Era inaccettabile. Era squallore umano allo stato puro. “Rivoluzione” dicevano, ma a vantaggio di chi? A favore di che cosa? Io ero figlio di contadini. Ero per la costruzione non per la distruzione. E comunque, non c’era bisogno che arrivasse Gaber per mettere in luce l’insensatezza di certe categorie sventolate per ottenere qualcosa al momento della spartizione. A sinistra, artisticamente parlando, c’era la pagnotta. È una verità indiscutibile». 
C’è altro?
«Non mi sono mai arreso alle mode. All’idea che se eri di sinistra ti trasformavi automaticamente in un cavaliere colto e romantico e se non lo eri, eri solo un povero coglione o un pantofolaio borghese. Io ero intellettualmente onesto. Mi bastava. Medaglie e medagliette non le volevo». 
Dal 1972 al 1981 lei sparì dai radar italiani. 
«Andai in Francia, in Sudamerica, in Germania e persino nella Spagna franchista. Gianni Minà mi aveva ammonito: “Non ci mettere piede, lì sono tutti fascisti”. Vidi con i miei occhi un Paese ben diverso da quello che descrivevano all’esterno». 
Umberto Eco sosteneva che lei conoscesse “la tragica banalità della vita”.
«Mi hanno letto, in malafede, come un semplificatore di sentimenti. In realtà cantavo il disagio e l’amore: temi universali. E lo facevo con le controscatole. Quando qualcuno si accorse che mi aveva plagiato anche il buon Michael Jackson, qualcosa cambiò. Accadde anche al vino Primitivo: “È buono per l’inchiostro” scrivevano. Oggi è tra i più premiati al mondo». 
Qual è lo stato dei rapporti con Romina? Dopo anni di accuse reciproche siete tornati a suonare insieme. Il 28 luglio sarete all’Auditorium di Roma, il giorno dopo a Chieti e poi ad agosto, il 6 e l’8, a Cagliari e a Cattolica. 
«Abbiamo avuto il periodo della grande solarità e poi quello della tempesta. Adesso è risorto il sole. Siamo coscienti di avere dei figli insieme. Lei aveva smesso di cantare, ora ha ripreso e si diverte. Credo anche abbia capito che non ero quello che dipingevano all’esterno». 
E cioè? 
«Una persona che non rispetta la libertà altrui. Una menzogna. Lei mi lasciò e io con sofferenza lo accettai. Perché ogni essere umano ha diritto alla sua libertà e alla sua indipendenza e Romina, sottolineo, dipendente da me non è mai stata». 
Il dolore per sua figlia Ylenia è ancora feroce? 
«Il male non passerà mai. Sono sempre stato con le antenne dritte e purtroppo ho capito subito cosa le era accaduto. Io e Romina in quegli anni tristi e cupi abbiamo subìto cose truci e trucide. Un assalto mediatico vergognoso e un dolore così profondo davanti al quale annullarsi o perdersi per sempre sarebbe stato facile. Toccai il fondo e mi rialzai. Mi salvò la fede in Dio». 
Di quell’assalto cosa ricorda? 
«Una troupe del Tg1 che sosteneva che in realtà avessi nascosto Ylenia in casa per farmi pubblicità. Mi chiamò un giornalista di punta, un nome noto. Mieloso, peloso: “Se ci dà un’intervista, tratteremo il caso con la dovuta umanità e delicatezza”. Lo mandai affanculo». 
Ha ancora sogni, Al Bano? 
«Moltissimi sogni. Sono stato un figlio della terra e alla terrà tornerò, ma non prima di aver cantato ancora. Lo faccio ovunque e niente mi fa sentire più vivo di un palco con la gente davanti a me. Se Aznavour è ancora lì, perché non posso starci anch’io per sempre?». 
 

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