Lo Ius soli e la debolezza dell’Italia

di Biagio de Giovanni
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Lunedì 19 Giugno 2017, 00:48
Il dibattito sull’ius soli in corso al parlamento italiano fa sorgere un interrogativo assai semplice: per quali ragioni l’Italia, tra tutte le nazioni europee, è stata ed è, finora, la più restrittiva sulla concessione della cittadinanza a uno straniero quando, naturalmente, ricorrano determinate condizioni che la rendano possibile. Da noi, su questo tema, si batte un record negativo, perché? Secondo me questa è la domanda cruciale anche per orientarsi sulla rissosa divisione in corso tra le forze politiche che paiono incapaci di un momento di serenità, e certe volte mi chiedo se abbiamo ancora un parlamento in grado di discutere, o che cosa esso stia, nella realtà, diventando. Ora la mia risposta è netta, senza alcuna riserva: è la debolezza dell’Italia come nazione che spiega il suo atteggiamento di chiusura. Non la forza di una nazione, ma la sua debolezza, la sua incertezza su se stessa la spingono a chiudere i confini della propria cittadinanza nella gabbia, che si frange da ogni lato, dello ius sanguinis. Non insomma un sentimento iper-italiano guida chi si oppone, e basterebbe pensare che tra gli oppositori più duri al disegno di legge cì sia la Lega che di italianità, almeno fino a poco tempo fa, nemmeno poteva parlare: il suo ius sanguinis era ristretto alla Padania, si formava e si fermava ai suoi confini. Ma vorrei dimenticare il dibattito in corso e anche i caratteri specifici della legge in discussione, sulla cui fisionomia si possono avere opinioni e sostenere sfumature diverse che, in un clima differente, potrebbero spingere alla formulazione migliore e più condivisa, e le riflessioni di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di ieri potrebbero essere un bel punto di riferimento. 

Invece, si assiste alla rissa, e la conquista di un voto, di una zona d’opinione pubblica vincono su tutto, come avviene su ogni argomento, qualunque sia il tema in discussione, e viene un senso di sconforto e di pena, in questo caso sì, per il futuro dell’Italia. Sembra che si combatta, sul tema dello ius soli, su un ultima spiaggia, abbandonata la quale il principio dell’italianità si disperda nel nulla. Fantasie e sciocchezze, verrebbe da dire. E sono inseguito da una immagine da regno di Utopia: il parlamento italiano che discute di questo tema, magari pure allungando i tempi del dibattito, per saper cogliere l’occasione che abbiamo davanti. Che è quella di rafforzare e arricchire il significato storico della nazione-Italia, misurandosi anche con le esperienze degli altri più a noi omogenei, rispondendo a un tema che è già reale e che lo sarà sempre più, man mano che il mescolarsi delle cose, delle persone, delle idee, la velocità della comunicazione, l’accorciarsi degli spazi e dei tempi diventerà, come sta diventando, dirompente, tanto forte da incrinare ogni confine.

Di fronte a questa dimensione del problema che cosa si fa: si chiudono gli occhi o si cerca di governarlo? Si resta ancorati allo ius sanguinis, chiusi nel recinto della discendenza, legati a una visione etnico-biologica della vita, oppure si apre lo sguardo alle forme di una nuova convivenza? Domanda retorica, per me, consapevole che si tratterà di praticare un terreno nuovo, e di sicuro con le sue insidie, che chiede una classe dirigente adeguata.
Ma si dice: e la storia? Certo, la storia conta e dovrebbe contare anzitutto per i giovani italiani che in parte, forse, non ne colgono più il significato, non la vivono più dall’interno della propria esistenza. Dunque, la storia: non più l’identità etnico-biologica, ma quella legata al passsato di una nazione, a quel passato che non passa, e in questo la scuola, sì proprio la scuola, dovrebbe tornare a svolgere in pieno il suo ruolo pedagogico, tanto più intenso quanto più varia sarà, anche per origine, la platea dei giovanissimi scolari; quanto più si tratterà di raccontare l’Italia a chi deve familiarizzarsi con essa, e sentirsene, in qualche misura, parte. La storia anche grande di una Italia che dovrebbe esser riportata alla memoria anzitutto degli italiani, una storia aperta, dai tempi dell’umanesino, a una idea di umanità da comprendere e da riconoscere. Il problema, voglio esser chiaro, non sta nel disprezzare i confini della propria nazione, il campo di realtà e di sentimenti che si vivono al suo interno. Sappiamo che la rottura dei confini può coincidere con la rottura degli equilibri sociali, con la trasformazione complessiva dei rapporti di forza, ma nessuno invoca questo.

Il tema della cittadinanza riconosciuta non facilita questa rottura, anzi la sua ragionata estensione è destinata, se ben attuata e ben governata, a mostrare la forza di una nazione, la sua capacità di integrare chi è venuto da lontano ma fa parte di una società. La cittadinanza non è un diritto, ma una condizione stabilita per legge che implica un equilibro tra diritti e doveri, stabilisce una condizione di partecipazione alla vita e agli ordinamenti di una nazione. E richiede anche il riconoscimento della cultura in cui ci si integra, o, se vogliamo usare questa parola ambigua, dei suoi valori. Ecco dunque l’occasione che i nuovi tempi portano con sé: dar più forza alla nazione-Italia in una nuova, ineludibile congiuntura. Far valere le forze vive, non farsi rinchiudere nel recinto degli antenati iure sanguinis. Amare gli antenati e il passato dell’Italia, far amare anche dagli altri il suo territorio, che è suo e non di nessuno, e la straordinaria bellezza delle sue città e le memorie di una civiltà sparse dappertutto. La realtà di un territorio largamente abitato, uno ius soli ben temperato è l’unica risposta che ha dalla sua parte il futuro. 
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