E Falcone si sfogò: «Così distruggono il pool antimafia»

E Falcone si sfogò: «Così distruggono il pool antimafia»
di Sara Menafra
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Venerdì 19 Maggio 2017, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 21 Maggio, 10:21

Diceva Enzo Biagi: “Si può uccidere anche solo con la parola”. Non si parla, credo, di prove nel cassetto, perché ormai tutti i cassetti sono stati svuotati e adesso la musica è cambiata: sono indagini che non sono state fatte o sono state fatte male. Consentitemi un altro sfogo: essere costretto a scrivere all’Unità che non è carino dire “Falcone preferì insabbiare tutto”...».

E’ un uomo solo, avvilito, il Giovanni Falcone che il 15 ottobre 1991 viene audito davanti al Csm. Risponde di accuse che oggi sembrano lunari, arrivate da Leoluca Orlando, l’ennesimo episodio di rapporti difficili con i colleghi. Oggi questi atti e tutti quelli che lo riguardano, fin da quando era un giovane pm, sono a disposizione di ricercatori e studiosi. Da lunedì, dopo il plenum straordinario alla presenza del presidente Sergio Mattarella - che di quei fatti ha, ovviamente, una memoria viva e personalissima - saranno persino disponibili on line, sul sito di palazzo dei Marescialli. La decisione del Consiglio è anche un atto di pubblica contrizione, di ammenda. Perché dalla lettura dei documenti messi insieme e rivalutati da un gruppo di consiglieri, guidati da Luca Palamara, emerge chiara la conferma di un fatto noto: da un certo punto in avanti, probabilmente dalla mancata nomina a capo dell’ufficio requirente palermitano, furono soprattutto i suoi colleghi a non capire e a lasciare solo Falcone. Scegliendo di non difenderlo dalle accuse arrivate da più parti, dai veleni del “corvo”, che inviava lettere cariche di sospetti, dagli esposti di chi lo accusava di essere «cambiato».

I colleghi, puntualmente, gli preferirono altri candidati. Alcune pagine del suo travagliato percorso professionale, fatto anche di isolamento, nel volume, a tratti omissato, non ci sono. A cominciare dalla più dolorosa: la decisione, su nomina governativa, che porta a capo dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia, Domenico Sica. C’è, invece, e nel dettaglio l’istruttoria che conduce a preferigli Antonino Meli a capo della procura di Palermo, avvenuta pochi mesi prima, sempre nell’88. E ci sono gli scontri che ne seguirono.

LA CULTURA DEL SOSPETTO
E’ nel verbale dell’ottobre 1991 che Falcone, rispondendo alle accuse di Orlando usa una delle sue espressioni più dure e anche più famose e più abusate: «Mi si deve dire chiaramente: “tu sei accusato di aver rivelato il contenuto delle dichiarazioni di Pellegriti (un pentito ndr) ad Andreotti”, ma non mi si può chiedere in maniera maliziosa se per caso ho telefonato ad Andreotti, perché questo rientra nel foro personale di ciascuno: non si può chiedere. Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del Komeinismo. Dopodiché ho detto che questa telefonata non c’era stata». È una richiesta di aiuto quella che Falcone lancia ai colleghi: «Non si può andare avanti in questa maniera, questo è un linciaggio morale continuo. Io sono in grado di resistere, ma altri collegi un po’ meno. Per carità, voi fate tutto e per intero il vostro dovere, ma tenete conto anche di questo».

IL TERZO LIVELLO
Nell’audizione Falcone, che è già transitato alla guida dell’ufficio Affari penali del ministero della Giustizia, ripercorre con orgoglio tutte le scelte fatte dal pool antimafia del quale era stato ispiratore e leader. A cominciare dall’idea di lavorare in gruppo, di concentrarsi con estremo interesse sulle indagini bancarie. «Credo, senza tema di smentita - dice a proposito del maxiprocesso - che sia stata, questa nostra, la più grossa indagine bancaria mai fatta in un medesimo processo e non poteva essere diversamente in relazione alla dimensione dell’organizzazione». Smentisce invece l’esistenza di un “Terzo livello” dell’organizzazione mafiosa «inteso quale direzione strategica, formata da politici, massoni e capitani d’industria. vive solo nella fantasia degli scrittori», dice. 

LO SCONTRO CON MELI
Le carte raccontano in dettaglio lo scontro con il procuratore capo, che allora si chiamava Consigliere istruttore, Antonino Meli, il cui arrivo a Palermo, dopo la bocciatura di Falcone, porta ad una vera e propria disarticolazione del pool antimafia, costringendo il pm all’addio. Meli avoca a se alcuni procedimenti, mantenendo l’affiancamento con i magistrati del pool, cambia i «criteri tabellari». Nella lettera che Falcone invia al Csm spiega: «Il Consigliere istruttore (ovvero Meli ndr) stava ponendo in atto il suo convincimento circa l’impossibilità di assegnazioni congiunte». 

LA PROCURA ANTIMAFIA
Illuminante e altrettanto tragica è la pagina in cui si parla della creazione della Procura nazionale antimafia. Un’idea partorita dalla mente di Falcone e, infatti, Nel rispondere alla commissione come candidato a guidarla, nel febbraio ‘92, dimostra di avere già chiaro, nel dettaglio, il modello che si rivelerà vincente: «Io credo che questo organismo sia un organismo servente, un organismo che deve costituire un supporto e un sostegno per l’attività investigativa in contrasto alla criminalità organizzata che deve essere svolta esclusivamente dalle Procure distrettuali antimafia. In realtà quello che conta, nelle funzioni del procuratore nazionale antimafia e della direzione nazionale antimafia è questo compito di impulso, di promozione del collegamento e del coordinamento investigativo». Un’idea vincente, che non farà in tempo a realizzare. 

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