Il Paese al bivio/ I costi italiani se salta l’intesa di Parigi sull’energia

di Oscar Giannino
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Martedì 11 Aprile 2017, 00:05
Il G7 dell’energia tenutosi ieri sotto la presidenza italiana è andato come si temeva. L’amministrazione Trump ha chiesto tempo, perché è ancora alle prese con un esame accurato delle conseguenze di tutti gli impegni assunti dagli Stati Uniti, firmando insieme ad altri 195 Paesi nel 2015 gli obiettivi finali della conferenza Cop21 a Parigi.

Di conseguenza, ieri, nessuna dichiarazione congiunta. «L’impegno a implementare l’accordo di Parigi rimane forte e deciso per tutti i Paesi dell’Unione Europea», ha detto il ministro Calenda. «Rispettiamo il fatto che gli Stati Uniti rianalizzino la propria posizione - ha aggiunto - ma il consenso è stato raggiunto su molti importanti temi, come lo sforzo congiunto per sostenere la sicurezza energetica dell’Ucraina, il ruolo futuro del gas naturale, la cybersicurezza». Al di là della ovvia accortezza diplomatica, bisogna intenderlo come il primo segno di una rottura profonda, oppure no? E che conseguenze esercita sull’Europa e sull’Italia?

Ricordiamo che gli impegni di Parigi, volti attraverso il drastico contenimento delle emissioni di gas serra a impedire l’aumento di 2°centigradi della media di temperatura globale, significano per l’Europa l’abbattimento al 2030 del 40% dei livelli di emissione di CO2 e altri gas di combustione fossile. Per gli Stati Uniti, l’obiettivo si traduce in un calo tra il 26% e il 28% delle emissioni del 2005 entro il 2025.

Attualmente, secondo un report pubblicato la settimana scorsa da think tank ambientalisti come Carbon Market Watch e Transport & Environment, in Europa solo Svezia, Germania e Francia appaiono davvero in linea con i graduali adempimenti necessari a conseguire realisticamente l’obiettivo. Polonia, Repubblica Ceca, Spagna e Italia stanno nel gruppo intermedio, alle prese con grandi problemi di ridefinizione delle strategie nazionali, in modo da rendere credibile il perseguimento degli obiettivi attraverso il miglior uso dei certificati verdi del sistema Ets a favore degli energivori, per non penalizzare troppo la manifattura, la riforestazione, l’adozione di tecnologie di abbattimento e ristoccaggio delle emissioni delle stesse centrali a carbone di ultima generazione, prima di deciderne la chiusura su due piedi.

È il caso di ripeterlo. Gli obiettivi di Parigi comportano un riorientamento complessivo, industriale, agricolo, urbano, che richiede investimenti immensi. Gli oltranzisti del Cop21 chiedono che mondialmente entro tre anni l’equivalente di 500 miliardi di dollari - in cui stimano l’insieme dei sussidi mondiali alle energie fossili - venga riconvertito in sussidi alle rinnovabili; che al 2030 nei Paesi avanzati ed Europa il trasporto sia al 2030 integralmente elettrico, con una smart grid di distribuzione capace di sostenere l’industria energivora solo con rinnovabili, con l’utilizzo di solare ed eolico per la sostituzione sempre più integrale del fossile nei consumi energetici familiari e urbani. Cioè l’equivalente della riduzione annuale prima di 100 mlioni, poi di 500 al 2030, e infine di un miliardo e più di tonnellate annue di gas serra al 2040, con un processo via via più esteso negli stessi termini a tutti i Paesi meno sviluppati. E’ una strategia il cui impegno finanziario, oltre che tecnologico, è immane.

Trump in campagna elettorale ha detto cose diverse. In alcune occasioni, ha esplicitamente fatto capire che la Cop21 era finita in mani europee, e che non è nell’interesse degli Usa. Poi, a novembre, ha preferito dire che avrebbe studiato molto approfonditamente il dossier. Tutto sommato, il nulla di fatto di ieri a Roma è coerente a questa seconda linea, non alla prima. Che, se ratificata con il ritiro degli Usa dagli obiettivi comuni, inabissa come imperseguibile l’intero quadro degli obiettivi di Parigi.

Lo strappo di Trump sugli obiettivi di limitazione del carbone voluti da Obama, la scorsa settimana, tutto sommato non è troppo rilevante, visto che a oggi gli occupati nel settore in tutti gli Usa sono 140 mila ma dimezzati in un decennio, e il maggior produttore è il Wyoming per il solo fatto che i giacimenti sono i superficie. Ci ha pensato il mercato, cioè, a riorientare risorse finanziarie e tecnologiche verso altre fonti a cominciare dallo shale oil and gas (su cui non è riuscita la strategia dell’Arabia Saudita degli abbattimenti del prezzo del barile per mandarlo fuori mercato…). Ora che l’amministrazione Trump inizia a trovare più stabili equilibri (basta guardare alla politica su difesa e sicurezza), bisognerà vedere quali interessi energetici prevarranno: sin d’ora si capisce che i prezzo del barile agli occhi degli States gioca un grande ruolo nella partita ingaggiata con la Russia in Medio Oriente.

Per gli interessi dell’Italia viene il tempo di stare molto attenti. Il 27 aprile il governo presenta la nuova Strategia Energetica Nazionale, e sin d’ora si può anticipare che avrà buoni obiettivi di decarbonizzazione “realistica”, cioè non oltranzista e con attenzione agli energivori e alle infrastrutture energetiche che non bisogna bloccare ma accelerare, dai rigassificatori alle pipeline come la Tap. Poi entro fine anno – o meglio, dopo le prossime elezioni – bisognerà adottare il Piano Climatico-Energetico, il vero documento traguardato sugli obiettivi della Cop21. E allora si giocherà la vera partita. La strategia energetica appena presentata dal Movimento 5 Stelle sposa integralmentre gli obiettivi più radicali della Cop21: ma ha il difetto sostanziale di non dire nulla su quanto costi e chi paghi l’immenso processo di riconversione che pretende di adottare in pochi anni nel nostro Paese.

È vero che le elezioni non si vincono né si perdono - purtroppo - per programmi elettorali più o meno accurati. Ma per un Paese importatore del più delle sue fonti, imbarcarsi verso obbiettivi tanto radicali senza saperne quantificare i costi aumenta il rischio di tradursi in un freno per l’economia, invece che in un acceleratore.

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