La storia quasi novantenne del premio cinematografico più importante e più ambito del pianeta è stata sporcata per sempre. Dopo una figuraccia del genere, e anche i responsabili del clamoroso disguido verranno punti, sarà dura recuperare credibilità e appeal proprio nel momento in cui l’interminabile cerimonia (oltre 4 ore) perde pubblico e interesse. E forse lo perde il premio stesso, dominato dai grandi capitali del cinema. Se il nostro “Fuocoammare” non ha vinto è anche perché i documentari concorrenti erano sostenuti dai colossi che nella campagna pro-Oscar hanno investito milioni.
Ma l’epilogo dell’89ma edizione dell’Oscar ci ha fatto riflettere su un altro punto. Quest’anno, in seguito alle proteste del 2016 per il premio “troppo bianco”, film e attori di colore hanno fatto l’en plein. Si è parlato di trionfo del “black power” anche perché la giuria dell’Academy era stata integrata di 683 membri rappresentativi di tutte le minoranze. Giustissimo, era ora.
E ora cominciano a farsi sentire anche i latinos, una fetta consistentissima della società americana. Anche loro invocano un Oscar “dedicato”. E’ sacrosanto che il premio includa tutti, senza eccezione. Ma non si può immaginare che un anno ci sia l’Oscar nero, l’anno dopo l’Oscar latino, domani l’Oscar asiatico e poi di nuovo bianco. Il buon senso è legittimo e i film in gara devono rispecchiare tutte le componenti della società. Ma le “quote” rischiano di uccidere il cinema.
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