Pd, scissione più vicina. Renzi: «Non se ne vanno. E addio al voto a giugno»

Renzi
di Alberto Gentili
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Giovedì 16 Febbraio 2017, 09:05 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 08:14

«Loro stanno chiusi nel palazzo, io giro il Paese». A sera, quando è ormai sul treno per lo riporta a Roma, Matteo Renzi ai suoi racconta il significato della trasferta alla sede storica del Pd milanese, in via Lepetit. «Vado a scovare le persone che possono portare idee, il nuovo programma del Pd parte dal basso».

E parte dal laboratorio del renzismo, accompagnato da Tommaso Nannicini e Pietro Bussolati, da quella Milano dove l'ex premier ha ottenuto l'ultimo vero successo con Beppe Sala. E dove la gente gli urla: «Non mollare!». «Promesso», è la risposta di Renzi, che ha fissato per il 10-12 marzo un assemblea al Lingotto di Torino. Altro luogo simbolo: è lì che nel 2007 Walter Veltroni fondò il Pd.

La novità delle ultime ore è che il segretario uscente (domenica all'Assemblea nazionale rassegnerà le dimissioni) appare intenzionato a tentare di disinnescare la scissione di Bersani & C. L'ha deciso la notte scorsa in un lungo vertice con Dario Franceschini, Matteo Orfini, Ettore Rosato, Antonello Giacomelli, Lorenzo Guerini, Luca Lotti e Maria Elena Boschi. In verità Renzi è convinto che la minoranza «non andrà da nessuna parte, che la scissione si evita di certo. Stanno cercando di ottenere qualche giorno in più...». Ma, tra vedere e non vedere, nel vertice si è deciso di mandare Guerini e Franceschini a fare scouting per sondare i potenziali scissionisti. E, nel frattempo, di concedere qualcosa alla minoranza.

IPOTESI RINVIO
«Al momento le primarie sono previste per il 9 aprile», confida Renzi ai suoi, «ma si può vedere...». E l'altra notte, appunto, è stato deciso che è possibile concedere un mese in più di tempo a Bersani e agli altri. Tant'è, che tra i franceschiniani si parla del 7 o del 14 maggio. «Ma non oltre, altrimenti si interferisce con la campagna elettorale per le elezioni amministrative previste per metà giugno». L'altra apertura - e non da poco - è sulla data delle elezioni nazionali: «A giugno ormai è impossibile farle», concordano Renzi e Franceschini. «Semmai si faranno il 24 settembre in concomitanza con le elezioni tedesche. O, cosa decisamente più probabile, nel 2018. Perché non avrebbe senso andare alle urne in autunno dopo aver varato una manovra economica da 24 miliardi. Sarebbe come fare harakiri», dice chi ha partecipato al summit notturno.

Non sono i soli segnali di pace del Nazareno a chi minaccia di lasciare. Un altro, che serve anche a ricompattare i Giovani turchi di Andrea Orlando e Orfini, è il sì alla conferenza programmatica proposta lunedì in Direzione dal Guardasigilli. Ma senza dilatare i tempi congressuali. La conferenza, come hanno proposto anche Maurizio Martina e Piero Fassino, si farà tra l'Assemblea di domenica e il giorno in cui verranno presentati i candidati per le primarie. «Un modo per tenere unito il partito», spiega il giovane turco Francesco Verducci, «rafforzando il terreno comune programmatico all'inizio del percorso congressuale».

RITORNO AL MATTARELLUM
Altre due aperture, che però a sera Pier Luigi Bersani boccia insieme alle altre («non ci sono novità»), sono il ritorno al Mattarellum (deciso dall'assemblea del gruppo della Camera) come base di partenza per la trattativa sulla legge elettorale. Ed è la conferma che da domenica il reggente del partito sarà il presidente Orfini (non Renzi medesimo). Con una postilla: la proprietà del simbolo, grazie a una modifica dello Statuto, andrà al tesoriere Francesco Bonifazi. Il Pd finisce insomma nelle mani del core business del Giglio Magico: «Così non corriamo rischi...», confida un renziano. «E' la conferma che non è più il Pd, ma il PdR, il partito di Renzi», sibilano dalla minoranza.

Un'ulteriore pista per scongiurare la scissione sembra essere la candidatura di Orlando, un nome capace di tenere con sé i ribelli ex Ds. Ma il Guardasigilli nicchia: prima di scendere in campo vorrebbe che Roberto Speranza, Enrico Rossi e Michele Emiliano si facessero da parte. Un epilogo però improbabile. «Perché Bersani & C. dovrebbero sostenere il ministro della Giustizia di Renzi? Più facile, se restano, che si tengano Speranza», osservano non senza malizia nell'area di Franceschini. Scetticismo condiviso da Renzi in persona che ai suoi confida: «In Direzione con la sua sparata Andrea ha spostato sì e no quattro voti. Eppoi te lo immagini rinunciare al posto da ministro per fare la battaglia congressuale?».

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