Omicidio Roma, la lettera del killer dopo avere ucciso Luca: «Dovevo morire io»

Manuel Foffo e Marco Prato
di Cristiana Mangani e Adelaide Pierucci
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Mercoledì 9 Marzo 2016, 08:28 - Ultimo aggiornamento: 19:43

Sette pagine di messaggi e lettere con le quali spiega perché voleva suicidarsi. Marco Prato le ha scritte di getto mentre ingeriva un’intera boccetta di Minias, un ansiolitico che era stato comprato qualche giorno prima da Manuel Foffo, il complice nell’omicidio del giovanissimo Luca Varani. È un lungo sfogo su come la sua vita sia difficile, qualcosa che passa per il desiderio sempre nutrito di operarsi e diventare donna. Ma la mamma non vuole, la famiglia si oppone, e lui reagisce impazzendo.

Così prova a spiegare alle persone più care le ragioni di un gesto forte, ma trascura nei suoi messaggi di fare anche un minimo accenno al delitto. A quell’omicidio, premeditato ed efferato, che è costato la vita a un ragazzo di 23 anni. Non una parola, non un pentimento. La rimozione totale di qualcosa che, forse, per lui non è contato nulla.


LE AMMISSIONI
Questa mattina, Marco Prato, creatore di eventi gay, 29 anni, buona famiglia, dovrà presentarsi davanti al giudice per le indagini preliminari per essere interrogato. L’avvocato Pasquale Bartolo che lo assiste, vorrebbe farlo rispondere. E lui dal carcere di Regina Coeli dove è in isolamento, guardato a vista, ripete: «Dovevo morire io. Ho fatto una cosa orribile. Sono pentito».

Eppure nei due giorni passati in casa con Manuel Foffo, l’unico pensiero è stato quello di drogarsi e trovare qualcuno da uccidere. E quando ha convinto Luca Varani a raggiungerli a casa, dopo molti tentativi con altri amici, era stravolto dalla cocaina: circa 28 grammi, mischiati con alcool e psicofarmaci per quasi duemila euro di spesa, consumati con il complice. «Vieni - gli ha scritto per attirarlo nella trappola - ci sono 120 euro per te». E la vittima che si prostituiva per guadagnare di più, ha raccolto l’invito. Quando è entrato in casa, Manuel era nascosto. Luca si è spogliato, ha fatto una doccia, poi ha bevuto qualcosa che gli è stato offerto: vodka, alcol e benzodiazepine. Si è sentito male ed è andato in bagno a vomitare. A quel punto i due assassini si sono scambiati un’occhiata di intesa: ok, è lui, ammazziamolo, è stato il segnale. Prato, poi, è entrato in bagno e mentre Varani vomitava, prima di colpirlo, gli ha detto: «Abbiamo deciso che devi morire». 
 
La stessa scintilla non era scattata con altri amici che erano passati per quella casa nei due giorni di follia. Gente del giro, benestanti. Non questo figlio della periferia, con una vita complicata e la voglia di riscatto economico. I due che volevano fare del male a qualcuno, si sono accaniti fino a torturarlo. Un primo colpo in testa con un martello, poi una, due, coltellate alla gola. Incisioni profonde: Luca non doveva urlare, i vicini avrebbero sentito. E allora - racconta Foffo nel suo verbale di confessione - «gli abbiamo tagliato le corde vocali, e abbiamo colpito ancora, almeno dieci volte». Ed è solo quando la lama è entrata nel cuore che è finita una sofferenza atroce.

LA RICOSTRUZIONE
Gli inquirenti, grazie alla confessione di Foffo, stanno ricostruendo le ore precedenti al delitto. E si stanno chiedendo anche perché Marco Prato abbia potuto condurre questa vita dissennata, senza che qualcuno lo fermasse. I familiari ci avevano provato, avevano tentato tutte le strade per cambiarlo. Poi quella smania di cambiare sesso ha scatenato la lite. E la mamma ha smesso di interrogarsi anche davanti ai lunghi periodi di assenza. «Quando scompare non lo cerco nemmeno più», ha ammesso con i carabinieri. Lui, intanto, andava avanti con la sua vita sregolata, con la droga, l’alcool, che gli bruciavano la testa. Oggi dovrà raccontare la sua verità. E altrettanto dovrà fare l’amico-complice. Questa mattina, l’avvocato Michele Andreano che assiste Foffo, chiederà al gip una perizia psichiatrica su Manuel, oltre a esami tossicologici. «Sono morto dentro - gli ha confessato il giovane - aiutami a trovare una spiegazione a quello che ho fatto».

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