Sono state più di cinquemila le donne yazide, tra cui numerose adolescenti, ad essere rapite e rese schiave dai jihadisti che conquistarono, nell’agosto di due anni fa, la citta di Sinjar, nel nord dell’Iraq. Mentre alcune sono rimaste prigioniere dell’Isis, altre sono riuscite a fuggire, raccontando le loro terribili storie di stupri, abusi e torture fuori ogni immaginazione. Alcune di loro hanno trovato rifugio nel Kurdistan iracheno: proprio qui sarebbero state sottoposte ai test di verginità, denunciati dalle associazioni umanitarie, una procedura per altro priva di alcun fondamento scientifico, come ha più volte sostenuto anche l’Organizzazione mondiale della Sanità.
«Questi test, meglio noti come "test delle due dita" – ha spiegato Rothna Begum, ricercatrice della divisione che si occupa della difesa dei diritti delle donne di Human Rights Watch, che ha intervistato centinaia di ragazze catturate dai combattenti dell’Isis nel 2014 e poi liberate – si basano sull’errata convinzione che tutte le donne e le ragazze che sono vergini mantengono intatto l’imene, che comincia a sanguinare solo dopo il primo rapporto sessuale. Ma in quanto tali, sono assolutamente inefficaci per stabilire se le interessate hanno subito o meno una violenza sessuale».
Tuttavia, secondo il giudice curdo Ayman Bamerny, che è a capo di una commissione che analizza i crimini di Daesh, questi test sarebbero in realtà considerati dai tribunali iracheni come una prova evidente degli abusi subiti dalle donne. «In quanto amministratori di giustizia, dovrebbero garantire che tutte le donne, già oggetto di violenze sessuali, vengano trattate con rispetto e dignità», hanno affermato i responsabili dell’Human Rights Watch. Intanto, continuano ad aumentare le stime delle schiave dell’Isis, che secondo l’ultimo rapporto della nazioni Unite dovrebbero aver toccato quota 3500.
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