Una nuova Cassa Integrazione: la CIG’S Welfare meglio del cuneo fiscale

Una nuova Cassa Integrazione: la CIG S Welfare meglio del cuneo fiscale
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Mercoledì 8 Luglio 2020, 10:00 - Ultimo aggiornamento: 16 Luglio, 09:00

Dopo l’intervento sul “piano Colao” e “Family Act Mariano Delle Cave, Luca Pesenti e Giovanni Scansani (*) riflettono sulla possibilità di creare nuovi ammortizzatori sociali in sintonia con gli obiettivi del welfare aziendale. Una nuova forma di Cig. Con voucher

Il dibattito mediatico tra “garantiti” e “non garantiti”, cioè tra chi ha un’occupazione e chi non ce l’ha, nasconde sotto il tappeto il tema della qualità del lavoro. Gli “occupati” (includendo anche i collaboratori non dipendenti), tra cassa integrazione e altre procedure di riduzione/sospensione del trattamento economico, hanno subìto in questi mesi una notevole contrazione del loro potere d’acquisto ed ovviamente guardano con preoccupazione al futuro e più ancora alle sue conseguenze se l’emergenza non dovesse cessare a breve.

Ai tavoli delle procedure sindacali sugli ammortizzatori sociali, le imprese, comprensibilmente, negano forme d’integrazione del reddito che comportino costi indiretti aggiuntivi tra retribuzione differita e contribuzione sociale.

Una soluzione sarebbe quella di fare chiarezza circa la possibilità che le iniziative aziendali di sostegno al reddito aventi finalità sociale riconosciute in kind ai lavoratori posti in CIG (cassa integrazione guadagni) nell’emergenza, siano esenti da tassazione e contribuzione, istituendo così una specifica “categoria omogenea al pari di altre già definite nei documenti di prassi.

L’esenzione, anche al fine di giustificarne maggiormente il fondamento, potrebbe essere indirizzata ad un paniere di beni e servizi utili per sostenere il reddito (ridotto dalla CIG) avendo di mira solo i bisogni sociali più urgenti: alludiamo ai servizi alla persona come baby-sitter, cura dei disabili e/o degli anziani, ai servizi sanitari integrativi e ai buoni spesa.

La nuova fattispecie che potremmo definire CIG’S Welfare (Aziendale) – e che potrebbe anche essere limitata nel tempo e dunque essere, a sua volta, di tipo emergenziale (ma calibrata sui tempi della recessione economica, ossia del “virus” che ha colpito le imprese e il lavoro e non su quelli riferiti alla pandemia in senso epidemiologico) – avrebbe il pregio di venire incontro alle imprese che, responsabilmente, si sono poste il problema della copertura del gap retributivo subìto dai propri dipendenti posti in CIG non già per problemi gestionali di diretta imputazione all’azienda, ma unicamente per gli effetti negativi ed esogeni che il lockdown ha causato alle attività produttive. Queste imprese, poi, sono spesso le stesse che stanno anticipando la CIG a fronte dell’incredibile ritardo nella sua corresponsione da parte delle istituzioni preposte.

L’intervento, sul piano normativo, sarebbe assai semplice.

Basterebbe estendere le regole già previste per i prestiti ai dipendenti cassintegrati (Art. 51, c. 4, lett. b del TUIR) anche ai beni e ai servizi di cui s’è detto. Le agevolazioni dovrebbero potersi estendere anche ai “co.co.co.” ed allargarsi anche ai dirigenti di prima fascia (con reddito fino a 80.000 euro, adottando così una soglia analoga a quella prevista per i benefici fiscali dei PdR) qualora il loro trattamento economico sia stato temporaneamente ridotto per effetto di rallentamenti o riduzioni dell’attività di lavoro.

Questa lettura evolutiva del Welfare Aziendale è tanto più necessaria sol che si consideri che la cassa integrazione potrà rivelarsi, per lungo tempo, non più solo un istituto eccezionale, ma quasi un usuale mezzo di gestione del personale e degli esuberi a fronte del perdurare degli effetti negativi prodotti dalla pandemia sul piano produttivo e commerciale (effetti che, ovviamente, non sono magicamente destinati a sparire con la fine dell’emergenza sanitaria).

Se si mettesse mano alle potenzialità del Welfare Aziendale utilizzandolo – come dovrebbe essere – anche quale “leva” capace di sostenere la generazione di esternalità positive sul piano economico locale, oltre che come strumento di sostegno e di risposta – almeno parziale – ai bisogni più urgenti delle persone, si potrebbe pervenire, ad esempio, ad un aggiornamento della soglia di esenzione fiscale e contributiva connessa ai cosiddetti fringe benefit, i beni e i servizi di modico valore concessi dalle imprese ai lavoratori sino al massimale annuo di 258,23 euro (art. 51, c.3, TUIR).

La revisione di questo ormai storico limite di esenzione fiscale (risale al 1986) farebbe giustizia della sua attuale irrisorietà prodottasi nel passaggio dalle originarie 500.000 lire all’odierna soglia. Gli attuali 258,23 euro – equivalenti a ciò che nel 1986 era quasi una mensilità di salario di un operaio generico – è la semplice conversione dell’originario importo espresso in lire senza che si sia mai proceduto ad un suo adeguamento (neppure sulla base degli indici ISTAT relativi al costo della vita).

Non solo: ma considerando che ormai i fringe benefit sono spesso erogati sotto forma di voucher multiuso (cosiddetti buoni spesa) l’occasione, con un minimo sforzo creativo, potrebbe condurre anche ad un’evoluzione di tale strumento distinguendo tra uno specificobuono spesa” (che potrebbe essere limitato al circuito degli acquisti alimentari) ed un genericobuono acquisto” (utilizzabile per le finalità più varie, sganciate da qualsivoglia necessità socialmente meritoria).

Ed allora, se non per entrambe le fattispecie, almeno la prima dovrebbe poter ricevere un adeguamento della soglia di esenzione: è infatti uno strumento che non solo potrà in tal modo contribuire al sostegno economico dei lavoratori, ma che potrà partecipare anche al rilancio dei consumi (la soglia massima di esenzione potrebbe essere di almeno 500 euro, ancorché inferiore all’attualizzazione dell’originario importo).

Il sostegno così dato al Welfare Aziendale, guardato nell’ottica del “rilancio” cercato dal Governo (e desiderato da imprese, lavoratori e famiglie) sarebbe anche più efficace del taglio del cuneo fiscale (differenza tra costo del lavoro per l’azienda e quanto effettivamente resta in tasca ai dipendenti). Infatti, non è detto che un reddito netto maggiore per i lavoratori sostenga necessariamente i consumi: è anzi facilmente preconizzabile che il surplus sia “accumulato” in risparmio.

Tramite il sostegno alle misure di welfare d’impresa, invece, non solo si sostengono i redditi dei lavoratori (che comunque accederebbero a quei servizi per il soddisfacimento delle loro necessità individuali e/o familiari), ma la destinazione delle integrazioni del reddito così articolata ed esente da oneri fiscali e contribuzione previdenziale andrebbe certamente anche a beneficio della collettività partecipando all’augurabile “rilancio” che tutti attendiamo.

*Mariano Delle Cave, avvocato e dottore di ricerca in Diritto del Lavoro

*Luca Pesenti, professore associato nella Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

*Giovanni Scansani, co-founder di Valore Welfare Srl

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