l ministro polacco: «Tifosi laziali banditi». Quando il teppismo è anche verbale

l ministro polacco: «Tifosi laziali banditi». Quando il teppismo è anche verbale
di Piero Mei
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Venerdì 6 Dicembre 2013, 12:15 - Ultimo aggiornamento: 12:16
​Il caso degli italiani, ragazzi perlopi, che ancora sono detenuti nel carcere di Bialoleka sta montando a caso internazionale e sta perfino mettendo a repentaglio il tradizionale e storico rapporto di amicizia fra la Polonia e l’Italia. I fatti sono poco noti, le conseguenze, purtroppo, sì. Nessuno ha ancora chiarito cosa sia davvero avvenuto per le strade di Varsavia il 28 novembre, data del match di Europa League fra la Lazio e il Legia Varsavia.

Prima dell’incontro che la Lazio poi avrebbe dominato senza troppi problemi. Almeno in campo.

Soprattutto non è chiaro cosa abbia provocato quella che ormai è abbastanza riconoscibile come una autentica retata a danno dei tifosi biancocelesti, fra i quali sarà appurato dalle indagini se e quanti atti di teppismo siano stati compiuti e da chi ma senza la necessità di cedere alla subdola e ingiusta etichettatura di tutta una tifoseria come di hooligans in giro per l’Europa.

I supporters laziali meritano una maggiore considerazione, e bene ha fatto il presidente Letta, nel suo incontro con l’omologo polacco Tusk, a chiedere un rapido chiarimento dei fatti e delle responsabilità, ed un altrettanto rapido, nel rispetto delle regole, ritorno a casa dei ragazzi italiani.

Non è da andare dietro a improbabili parallelismi tra casi di diversissima natura, come quello dei marò ancora in India. E’ da considerare quello dei tifosi o teppisti di Varsavia in altra maniera: i tifosi caduti nell’improvvida retata senza alcuna colpa non possono essere ulteriormente reclusi né in Polonia né da nessun’altra parte. I teppisti andranno identificati nelle loro responsabilità e per queste saranno tenuti a pagare, secondo le regole del diritto internazionale e di quello polacco, perché non deve essere una cantilena quella che “la legge è uguale per tutti”, ma sempre un imperativo.

In questo quadro di tentativo di conciliazione, nel quale si può lamentare perfino un certo ritardo nell’intervento delle autorità italiane e una sottovalutazione dall’inizio di quel che poteva capitare, anche considerati i precedenti dei polacchi a Roma in occasione della partita di andata, con i tifosi italiani lasciati senza guida né tutela, mal si inquadra il commento del ministro degli interni di Varsavia, Barlomiej Sinkiewicz, il quale, parlando dei familiari dei detenuti arrivati in Polonia, ha detto di «comprendere il loro dolore» ma ha aggiunto: «La verità è che una parte di loro si trova a Varsavia per assistere i loro figli “banditi”». Se ce ne fossero, li identificassero e condannassero alle pene previste: accusare nel mucchio è come fare una retata, quella retata dell’altro giovedì che non ha distinto fra colpevoli e innocenti e che, stando alle testimonianze, ha visto tutti trattati con metodi che dalla civile Polonia, partner in Europa e amica di antica data, non ci si sarebbe aspettati in un contesto di questo genere.

Il teppismo che si nasconde dietro il presunto tifo va combattuto: a Varsavia come a Roma. Ma si combatte accertando bene fatti e responsabilità, la repressione dopo la prevenzione, senza retate, senza criminalizzazioni, senza dare del “bandito” in generale. Nessuno può stare con i teppisti, ma nemmeno con il teppismo ideologico di chi fa d’ogni erba un fascio, d’ogni tifoso vero, laziale o no, un “bandito”. La retata è comunque e sempre indifendibile.
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