Non è smart working/1. Tra obblighi e attese messianiche

Non è smart working/1. Tra obblighi e attese messianiche
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Martedì 2 Febbraio 2021, 10:00 - Ultimo aggiornamento: 9 Febbraio, 10:00

Con questo articolo inizia l’anticipazione (in otto puntate) della nuova riflessione dedicata allo smart working da Giovanni Scansani, consulente aziendale, esperto di welfare aziendale e co-fondatore di Valore Welfare, e da Luca Pesenti, docente di Sistemi di Welfare Comparato e di Organizzazione e Capitale Umano all’Università Cattolica di Milano.

In Italia il “lavoro agile”, prima della pandemia, stava compiendo i suoi primi passi verso un maggiore radicamento culturale ed operativo, ma durante la fase emergenziale, tuttora in corso, è stato progressivamente “contaminato” da una serie di assunti non solo opinabili, ma spesso lontanissimi dall’essenza di questo istituto. Per comprendere la natura e la funzione dell’autentico Smart Working (SW) occorre rifarsi ad una pluralità di dimensioni tra loro interconnesse e quindi riflettervi sul piano lavoristico, su quello tecnico-organizzativo aziendale, su quello socio-economico e su quello umanistico, andando molto al di là dei facili entusiasmi o delle vere e proprie utopie che sembrano aver preso, almeno sin qui, un deciso sopravvento sulle riflessioni più sensate.

A complicare il quadro, poi, ci si è messa anche la politica che ha contribuito a costruire una narrazione che, settimana dopo settimana, si è autoalimentata grazie anche ai social e al rinforzo degli immancabili “competenti” che ne tessevano la trama.

Per riportare il dibattito con i “piedi per terra” occorre, allora, decisamente escludere ciò che SW proprio non è. È del resto sotto gli occhi di tutti come si sia in presenza di un abuso della locuzione “smart working” e di plurimi tentativi per realizzare una torsione della sua stessa funzione al fine di dare sostanza a “visioni” che con l’organizzazione aziendale e le sue trasformazioni evolutive ben poco (per non dire nulla) hanno a che fare.

Lavoro da remoto forzato

Il problema nasce dal fatto che, dall’inizio della crisi pandemica in poi, tutti coloro i quali si sono riferiti allo SW lo hanno fatto potendo certamente immaginare che quello che, in realtà, stava andando in scena in buona parte delle case di milioni di lavoratori dipendenti non era il trionfo di una nuova modalità di lavorare a distanza ed il compimento di una “rivoluzione”, bensì un’esperienza – faticosa e talvolta anche drammatica – che proprio per le sue evidentissime caratteristiche mal si prestava ad essere descritta come smart (né, tantomeno come “agile”).

Come tutti sanno, quella che si è materializzata nelle abitazioni della maggior parte dei lavoratori durante il lockdown (ed ancora oggi, in questa lunga “Fase 2”) – salvo rare eccezioni – è unicamente una misura di distanziamento fisico, una forma di lavoro “appartato” (che si svolge, infatti, in “appartamenti”) ed il cui obiettivo (sociale ed economico) non era (e non è) l’aumento del benessere dei lavoratori e delle lavoratrici, né l’incremento della loro produttività o una migliore conciliazione degli impegni professionali con quelli personali e familiari.

L’obiettivo era (ed è tuttora) quello di realizzare una misura di prevenzione per evitare la diffusione del contagio da coronavirus permettendo, al contempo, il proseguimento di tutte le attività di lavoro possibili e remotizzabili. Svolgendo questa funzione, il “lavoro da remoto emergenziale” ha indubbiamente assolto un ulteriore compito fondamentale: non interrompere del tutto, laddove ciò sia stato possibile, l’attività lavorativa di milioni di persone, evitando la cassa integrazione ed arginando una caduta del PIL che altrimenti sarebbe stata ben più rilevante di quella già determinatasi e di quella che dovremo fronteggiare in futuro.

Fuori da questo schema, ma pur sempre dentro le criticità della crisi pandemica, si sono ritrovate alcune (pochissime) aziende che hanno potuto passare dall’analogico al digitale praticamente in “tempo zero”. Si è trattato di imprese di grandi dimensioni, tecnologicamente ed organizzativamente avanzate, dove lavorano figure professionali da tempo formate ed avvezze a muoversi con reale “agilità” nell’uso dei device e dei programmi informatici che li connettono al proprio lavoro ed alla complessiva struttura aziendale. In tali imprese le prassi di reale SW erano state introdotte ben prima dell’arrivo del coronavirus e spesso anche ben prima della pubblicazione della L. 81/2017 che ha disciplinato la materia, ma ciononostante e nel loro insieme, esse riguardavano solo una quota ridottissima di lavoratori (già) smart: non più di 570.000 addetti, secondo le stime dell’“Osservatorio Smart Working” del Politecnico di Milano (una quota dunque lontanissima anche solo dal far presagire una futura “rivoluzione” del modo di lavorare e la cui ridotta entità appariva in tutta la sua evidenza anche dal confronto con quanto, invece, si era già da tempo prodotto all’estero, come ad esempio in Olanda o in Svezia).

L’indispensabile richiamo alla memoria dell’obiettivo primario della remotizzazione forzata di tutto il lavoro che a tale misura si poteva prestare – nel quadro di un intervento squisitamente prevenzionale – avrebbe dovuto consentire di fare dei netti distinguo utili a riprendere (e a non confondere) il cammino sul quale il reale SW s’era instradato prima dell’arrivo del coronavirus.

Per poter irrobustire le prassi dell’autentico SW occorre uscire dalla logica della sua adozione emergenziale che, se da un lato, ha certamente accelerato il processo della sua diffusione (sia pure sub specie di “lavoro da remoto forzato”), dall’altro non può certo consolidarlo nei termini in cui si è, sin qui, generalmente espresso.

È, invece, potuto accadere che la diffusione – improvvisa, improvvisata e di massa – proprio del “lavoro da remoto forzato” sia stata salutata, dai più, come l’avvento di una “rivoluzione” organizzativa, resa possibile dalle tecnologie info-telematiche, da tempo attesa e che finalmente poteva dirsi compiuta. Detto altrimenti, il mismatch tra la realtà ed una visione ingannevole, fondata su un determinismo molto semplicistico, ha finito per attribuire al coronavirus il ruolo del disruptive innovator capace di far discendere dalla crisi che ha innescato anche l’avvenuto compimento di una trasformazione irreversibile.

A poco erano serviti i dati pubblicati dall’ISTAT che evidenziavano come, nell’arco dei tre bimestri considerati (gennaio/febbraio, marzo/aprile e maggio/giugno del 2020, ossia: prima, durante e dopo il lockdown nella “Fase 1”), la percentuale di lavoratori che aveva lavorato da casa fosse cresciuta dall’1,2% al 5,3%, passando per il picco di marzo/aprile pari all’8,8%. I dati dimostravano che le aziende, con l’allentarsi delle criticità sanitarie al termine della “Fase 1”, avevano fondamentalmente riassorbito una buona parte degli occupati, pur mantenendone “a distanza” una quota superiore alla fase pre-pandemia.

Del resto, di realmente trasformativo, sul piano tecnologico ed organizzativo, non c’era nulla o c’era – e c’è spesso anche adesso – davvero ben poco.

Sul piano organizzativo, sia nel settore privato e tanto più in quello pubblico, siamo ovviamente ben lontani da quella profonda riconsiderazione dei canoni culturali, operativi e manageriali capaci di trasformare in “smart” realtà, invece, ancora rigidamente impostate sulle premesse del lavoro novecentesco (e nella P.A., in non pochi casi, anche pre-novecentesco).

Sul piano tecnologico, poi, sono emersi tutti i deficit che impedivano di salutare l’avvento di una modalità realmente “agile” con la quale lavorare: sono ben note le carenze, almeno iniziali, nella disponibilità di efficienti device, di connessioni veloci (la banda larga in Italia raggiunge solo il 24% della popolazione contro una media UE del 60%), di reti VPN e (soprattutto) di specifica formazione al lavoro “da remoto” che la più grande operazione planetaria di dislocazione fisica e di massa del lavoro non manuale ha fatto emergere, nella maggior parte dei casi, con immediata ed impietosa evidenza.

Certo non può sottacersi che, nel giro di qualche settimana, sia accaduto qualcosa che prima del lockdown era a dir poco impensabile, ma questa impressionante evidenza ancora non ci dà conferma delle future, leopardiane, “magnifiche sorti e progressive” dello SW ed anzi ci lascia agevolmente immaginare che le rilevanti criticità (subito esplose in milioni di “case-uffici” che l’emergenza ha istantaneamente creato dall’oggi al domani) in molti casi tuttora permangano e possano continuare a manifestarsi anche in futuro. Non foss’altro per l’assenza di un ingombrante convitato di pietra: quel cambio di paradigma organizzativo e di mindset manageriale che il “lavoro agile”, per potersi dire tale, pur sempre presuppone e ciò sulla premessa maggiore del suo inserimento nel quadro di quella “grande trasformazione” del lavoro che una serie di fenomeni sociali e tecnologici stava e sta tuttora realizzando e che la pandemia, non va sottaciuto, ha senz’altro accelerato. Una “grande trasformazione”, tuttavia, ancora lontana dal compiersi su larga scala.

Un’attesa messianica

Con queste prime considerazioni sullo sfondo, appare in tutta la sua evidenza che la “lettura” del fenomeno ed il dibattito che si è sviluppato quotidianamente sui media e nei social abbia sin qui prodotto (e stia tuttora spesso producendo) un processo contrario rispetto a quello auspicabile.

Nelle prossime puntate esamineremo più in profondità questo aspetto. Qui e a valere come introduzione dei futuri contributi che saranno pubblicati, possiamo rilevare come si stia salutando l’esperienza di massa del “lavoro da remoto forzato” non già come un evento da cui estrarre – anche alla luce delle evidenze di ricerca che pure non sono mancate – sia gli elementi d’interesse effettivamente replicabili in futuro, sia i problemi rispetto ai quali approfondire l’analisi, bensì come l’avvento, quasi messianico, di una “rivoluzione” organizzativa complessiva (del lavoro e dalla società tutta) tanto attesa quanto benefica in ogni suo aspetto e conseguenza: da una finalmente realizzata conciliazione degli impegni della vita privata con quelli del lavoro, all’eliminazione dello smog – grazie alla fine del pendolarismo e della prossimità imposta dai ritmi della vita – fino alla rinascita dei borghi e delle periferie, salutando anche la natura che, qua e là, riprende il sopravvento per la rarefazione della presenza umana.

E così già si annuncia – con Peter Weibel – che “the new era has begun”, perché “the society of proximity is coming to an end” (come può leggersi in “Virus, Virality, Virtuality. Or: the Corona Virus, the Leviathan of the Proxy-Society” – zkm.de). Queste ed altre affermazioni similari – fatte quasi rimuovendo il peso delle criticità del momento – aiutano chi sostiene che talune delle conseguenze della pandemia siano – e per di più per tutti – assolutamente desiderabili, eliminando dal discorso anche solo la possibilità che dietro a questi scenari vi sia, invece, la percezione anche di grandi perdite.

Nell’automatismo del passaggio dalla pandemia ad un “new normal” che sarà senz’altro eccitante e capace di migliorare l’esistenza dell’umanità sotto i più vari aspetti vi è uno di quegli “echi perlomeno infelici” cui fa ha fatto riferimento Bernard-Henry Lévy evidenziando la propensione, insita in questo approccio, verso la condivisione dell’idea “che il virus non [sia] del tutto cattivo, che [possieda] anche una virtù nascosta” e che nella battaglia contro il Covid-19 “ci [sia] una parte di questa guerra di cui gioire”. L’infelicità degli echi cui il filosofo si riferisce in un suo recente pamphlet (“Il virus che rende folli”) sarebbe data dalla similitudine che egli nota con i commenti che alcuni intellettuali francesi fecero durante l’occupazione nazista di Parigi, tra chi sosteneva che “la città non era mai stata così bella e così piena di fiori” e chi “si meravigliava della città senza il rumore delle automobili dove l’attività frenetica era rallentata dalle difficoltà dei trasporti” o financo “dall’arrivo dell’aria di campagna a Parigi” e dalla “rinascita del cavallo”.

L’osservazione su quanto realmente accaduto – liberata dalle narrazioni, dalle retoriche e dalle utopie di questi ultimi mesi – ci restituisce un quadro decisamente più sfaccettato che illustreremo a partire dalla prossima puntata.

Luca Pesenti,

docente di Sistemi di Welfare Comparato e di Organizzazione e Capitale Umano all’Università Cattolica di Milano

Giovanni Scansani,

consulente aziendale, esperto di welfare aziendale e co-fondatore di Valore Welfare

(Continua)

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