Le grandi tragedie Nel Paese dei disastri
le colpe dell'uomo

Obama e Berlusconi a L'Aquila dopo il terremoto
di Matteo Collura
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Venerdì 6 Dicembre 2013, 14:08 - Ultimo aggiornamento: 13 Dicembre, 21:04
Vista nelle carte geografiche l’Italia ha stranissima forma, si direbbe inventata da un Artefice in vena di stramberie. Appare come uno stivale, che però può far pensare anche a una calza appesa al Vecchio Continente; una calza della Befana – ci sia fatta passare la metafora – come quelle che vengono riempite di doni, ma anche di carbone. Contiene innumerevoli tesori d’arte, questa nostra calza, e paesaggi d’incanto, resi giardini dal benevolo clima mediterraneo.



Gli dèi, che dall’alto si affacciano, il più delle volte se ne compiacciono; altre invece – e sono guai – su di essa sfogano le proprie ire. Fa pensare a una calza appesa, l’Italia, ma la si potrebbe paragonare anche a un bambino o una bambina incapaci di difendersi quando arriva loro qualcosa addosso o un adulto li aggredisce. Non sa proteggersi, l’Italia; e terremoti, eruzioni vulcaniche e inondazioni ne approfittano, anche perché sanno bene (gli dèi lassù l’hanno detto in giro) che governi e autorità tenuti in piedi per reagire alle sberle della natura, il più delle volte latitano o si guardano bene dal prevenire.



Potremmo raccontarlo così, il dramma dei disastri naturali che si accaniscono sul nostro Paese. Nella realtà tutto è più profano, per niente epico o favolistico. L’Italia ha un assetto territoriale problematico, reso ancora più rischioso da una forsennata – a volte suicida – antropizzazione. Ecco i morti, quando piove troppo, quando la terra trema, quando colline e montagne franano.



Molti di noi hanno l’età per ricordare non poche di queste sciagure. Certo non quella che le supera tutte per feroce grandiosità, vale a dire il terremoto che squassò Messina e Reggio Calabria nell’albeggiare del 28 dicembre 1908. Almeno centomila, le vittime. Non c’era stata ancora la bomba atomica su Hiroshima, per questo, laddove lo Stretto è vegliato da Scilla e Cariddi, si parlò di una seconda Pompei.

Nel novembre del 1951 un’alluvione apocalittica sommerse il Polesine, facendo ottantaquattro morti e centottantamila sfollati. Anche noi siciliani, al cinema, fummo tenuti a pagare un sovrapprezzo in favore degli alluvionati.



Ecco poi il disastro del Vajont (quasi duemila morti), sempre là, nel quadrante nord-est dell’Italia nostra. E nel novembre del 1966, essendo in età di servizio militare, fui sul punto di trovarmi a spalare nella Firenze sconvolta dalla catastrofica esondazione dell’Arno.



Del terremoto che nel gennaio 1968, in Sicilia, abbatté come presepi di carta i paesini della Valle del Belice (trecentosettanta morti), sono testimone. Da Agrigento, dove allora iniziavo la carriera giornalistica, appreso della scossa, mi recai nelle zone sinistrate, per raggiungere una mia fidanzata con casa a Sciacca. Fu in quell’occasione che mi resi conto che i terremoti uccidono soprattutto i poveri, che finiscono sotto le macerie delle loro povere case.



Fece una sorta di spaventoso bis, il terremoto, dodici anni dopo, in Campania e in Basilicata (quasi tremila morti). Anche quella volta a pagare il prezzo più alto fu la povera gente. E si tace delle turpi speculazioni cui si abbandonarono affaristi e politici scrocconi.

E ancora, il terremoto in Friuli (1976) con quasi mille morti; e quello che, nella primavera del 2009, distrusse parte dell’Aquila e alcuni paesi dell’Abruzzo. E il sisma che lo scorso anno sconvolse l’Emilia e parte della Lombardia. E ora i morti della Sardegna, e lo sgomento e la rabbia nel costatare come la nostra Italia-calza venga riempita più di carbone che di generosi doni.