Il dopoguerra La lunga marcia dell'Italia
verso la ricostruzione

De Gasperi all'uscita del seggio per le elezioni del 1948
di Paolo Pombeni
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Venerdì 29 Novembre 2013, 19:19 - Ultimo aggiornamento: 6 Dicembre, 14:08
Era un paese fortemente provato da una guerra combattuta per lunghi mesi sul suo territorio l’Italia finalmente liberata dal maggio 1945. La novit pi forte era allora e sarebbe rimasta per lunghi decenni la centralità politica dei partiti: qualcosa di diverso da quello che essi avevano rappresentato nel prefascismo, almeno per i tre più importanti, quelli che sarebbero poi stati definiti “di massa”. A fianco del tradizionale partito socialista, che aveva caratterizzato le classi lavoratrici italiane nel passaggio fra l’Otto e il Novecento, c’era, a far concorrenza, il nuovo partito comunista: non solo il movimento che aveva la sua centrale nell’Urss grande potenza vittoriosa, ma quello che attirava un numero notevole di intellettuali tormentati dall’idea che la tragedia appena conclusa avesse sancito una “svolta” irreversibile nella storia del mondo a cui essi dovevano dare il proprio contributo.



Il partito cattolico, che adesso aveva preso un nome nel secolo precedente quasi eretico, “Democrazia Cristiana”, era da alcuni punti di vista un enigma: col nuovo imperativo dell’unità politica dei cattolici riuniva tendenze che andavano dalla destra alla sinistra, col peso del papa Pio XII che sembrava poterlo proiettare verso una egemonia culturale quasi totalizzante.



Si vide da subito che la gestione del Dopoguerra sarebbe stata piuttosto complicata. Accanto alle forze popolari vi erano le tradizionali classi dirigenti, divise. Potremmo dire, fra il ceto alto-burocratico e quello imprenditoriale e commerciale, ma unite da una voglia discreta di non dare campo libero alle nuove classi dirigenti espresse dai partiti popolari. Soprattutto vi era la questione, inevitabile, della scelta fra Monarchia e Repubblica, scelta reclamata da gruppi dirigenti che in alcune componenti non sopportavano più una casa regnante che si era mangiata il credito sia nella gestione del ventennio fascista sia in quella dell’uscita malaccorta dalla alleanza con Hitler, mentre altre componenti volevano una scelta per confermare l’esistente, temendo una specie di salto nel buio se si fossero lasciate le sponde sicure della “tradizione istituzionale”.



Fu l’intuito politico di De Gasperi, un leader inaspettato di oltre 60 anni, a risolvere quella che poteva diventare una bomba: anziché far gestire la scelta fra i due regimi alla classe politica (cioè all’Assemblea Costituente) egli decise di metterla nelle mani di tutti con un referendum. Il Paese si spaccò quasi a metà (10 milioni di voti circa per la Monarchia, 12 milioni circa per la Repubblica), ma nessuno poteva dire di essere stato “raggirato” dai politici. Le leggende sulle “manipolazioni” delle schede non attecchirono ed in Italia una “questione Monarchica” non sorse più.



A testimonianza della sostanziale comprensione generalizzata della delicatezza di una “ricostruzione” che richiedeva un consenso ampio vennero i lavori della Assemblea Costituente che doveva scrivere la nuova Carta fondamentale del Paese. Anche qui, al di là delle leggende sulla costituzione “scritta metà in latino e metà in russo” (cioè un compromesso al ribasso fra cattolici e comunisti), si lavorò invece nello spirito di mettere a frutto quello che era stato il grande travaglio del pensiero politico europeo fra gli anni Venti e gli anni Quaranta, cioè una sintesi che tendeva a trasformare i risultati un po’ formalistici del costituzionalismo giuridico in una costituzione sociale.



Naturalmente questo non portò affatto alla creazione di un clima di collaborazione idilliaca fra forze politiche che avevano ideologie divergenti. La spaccatura fra comunismo e anticomunismo, che caratterizzerà l’Italia almeno per un trentennio, fu profonda e in non pochi casi esasperata, ma almeno a livello delle classi dirigenti si mantennero modalità per quanto contorte di dialogo ed accettazione del fatto che nessuno poteva presumere di riuscire a cancellare l’avversario.



Sul piano politico-parlamentare già dal maggio 1947 si ruppe la ampia alleanza che vedeva insieme Dc, Psi e Pci per andare alla polarizzazione, resa esplicita dalle elezioni dell’aprile 1948, fra un centro (che teneva legate anche la destra e la sinistra moderate) e una sinistra verso cui sembrava esistere, per ragioni internazionali (i suoi legami con l’Urss), un veto ad entrare nell’area di governo. La destra vera e propria, che risorse abbastanza rapidamente, era anch’essa esclusa dall’area del potere, essendo, più che altro, una specie di agenzia di mutuo soccorso fra i superstiti del passato ventennio ed i loro nostalgici.



Fu in questo contesto che l’Italia guadagnò la propria “ricostruzione”: difficile, perché l’economia non si riprese veramente sino agli inizi degli anni ’50; tormentata, perché lo scontro ideologico, reso sempre più aspro dall’instaurarsi della guerra fredda, accentuò la spaccatura del paese lungo “feudi” e “fazioni” incomunicabili; ma nonostante questo di successo, perché tutti volevano “rinascere”, perché la società era percorsa da un grande vitalismo che trovava spazio nella ripresa dell’economia mondiale.

Gli anni seguenti non sarebbero stati facili, ma il Paese, nonostante tutto, avrebbe mantenuto quello che Aldo Moro chiamava “l’equilibrio” almeno sino alla fine degli anni Sessanta. Poi sarebbe cominciata in parte un’altra storia. In parte, perché il lettore avrà notato che quello che si è schizzato nelle righe precedenti ci pesa ancora, eccome, sulle spalle.
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