Matteo frantuma ogni record. Solo la Dc nel 1958 ebbe risultato così forte

De Gasperi e Fanfani
di Mario Ajello
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Lunedì 26 Maggio 2014, 10:00 - Ultimo aggiornamento: 10:01
Oltre la soglia psicologica del 35 per cento. Molto oltre. La sinistra modello Renzi, la sua post-sinistra trasversale e oltrista (oltre ogni steccato, oltre ogni riflesso condizionato come quello della subalternità al pansindacalismo e del complesso dei migliori, anche se pochi) sfonda la barriera più alta che era quella raggiunta da Enrico Berlinguer. Il quale non a caso è stato una figura centrale di questa campagna elettorale, nei richiami di Renzi ma soprattutto di Grillo che ha cercato di utilizzare il santino Enrico contro il «traditore» Matteo. E la soglia del 35 ora frantumata, e portata oltre il 40 con un successo storico, spinge il nuovo Pd a superare quello originario di Walter Veltroni, che nel 2008 arrivò al 33,4. Soltanto negli anni dell’apogeo del centrismo, alle elezioni del ’58, un partito ebbe un risultato così forte: il 42,3 per cento. E quel partito era la Dc di Amintore Fanfani. Per cui subito, in queste ore, stanno cominciando a fioccare i paragoni tra i democrat e la Balena Bianca ma anche questi sono, più che altro, riflessi condizionati del passato.

Che cosa è accaduto in realtà? E’ successo che la sinistra post-sinistra ha liberato se stessa, riuscendo ad andare oltre se stessa fino a prendersi perfino - e pareva incredibile fino a poche ore fa - i voti dell’elettorato berlusconiano e di quello generalmente moderato. Elettorati rivelatisi sensibili per esempio - e qui c’è la post-sinistra a vocazione maggioritaria - alla politica di Renzi non più succube della Cgil («E’ contro di noi? Ce ne faremo una ragione») e non più impaurita nello sfidare conservatorismi interni e tran tran italici.



LA PALUDE

Come quello - denominato «la palude romana» - rappresentato dalla pubblica amministrazione restia a riformare se stessa e frenatrice rispetto alle riforme generali in nome di privilegi che parevano intoccabili e invece non lo sono diventati più. Un elettorato sparso, sensibile a sfide di questo tipo e non più alle prese per esempio con il classico schema del leader di sinistra che mostrifica il Cavaliere Nero (anzi, fa con lui un patto sulle riforme), si è concentrato sul Pd dandogli quella vocazione maggioritaria sfiorata da Veltroni e facendo segnare una novità storica nella vicenda politica italiana.

Una costante nazionale è stata quella della non mobilità da destra a sinistra, o viceversa, dei voti e quella della separatezza assoluta tra i due bacini elettorali. Stavolta, per la prima volta, Renzi si va a prendere i voti degli altri. E questa non dovrebbe essere una sorpresa, anche se l’esito non era scontato, perchè dalla sfida nelle primarie con Pierluigi Bersani fino a quella successiva con Cuperlo e con gli altri, Renzi ha sempre ripetuto: «Non demonizzo chi vota per Berlusconi e per la Lega, non ho alcuna atteggiamento snobistico verso chi vota per il centrodestra. Anzi, io voglio parlare anche a loro». La vittoria di Renzi è dunque la vittoria della strategia random della ricerca dei voti, della rottura delle appartenenze elettorali. Bastava del resto, per accorgersi di questa possibile novità, la piazza di Firenze per la chiusura della campagna elettorale con comizio del segretario. Nessuna truppa cammellata. Totale assenza dell’apparato che porta gente e la controlla. Cgil? Zero. Pantere grigie? Stavolta prevale la mezza età e i giovani. Una piazza che è il volto di un partito che - ma la strada perchè arrivi a compimento questa spinta è lunga ancora - cerca nuove rappresentazioni e nuove rappresentanze.



VOTO UTILE

Questo Pd ha catalizzato tutto il voto utile anti-Grillo, ma anche molti di coloro che sono disinteressati o stanchi dei vecchi riti e delle vecchie chiusure di una cultura politica, la sinistra come è sempre stata, che non ha saputo parlare a chi sta fuori di propri recinti. Renzi ha parlato dalla vittoria delle primarie in poi, e anche prima, come Blair quando diceva: «Adoro tutte le tradizioni del mio partito, eccetto una: quella di perdere le elezioni». Niente nannimorettismo, niente sconfittismo, niente pessimismo. «C’è una parte della sinistra - ecco la chiave culturale che ha aperto le porte a un’altra sinistra, se ancora vogliamo definirla così ma ancora Renzi lo fa forse per un minimo di ossequio alle vecchie parole sempre meno significanti - che vuole la sinistra vecchia maniera, la sinistra tutta legata al passato. Quella sinistra lì noi vogliamo distruggerla».

Ma soprattutto, la svolta culturale che c’è dietro questo successo politico (più di undici milioni di voti) sta nell’aggressione, gradita anche a chi ha sempre votato per il centrodestra, contro tutti i problemi che stanno sul tappeto da vent’anni. Non ancora quello della giustizia (ma sono segnali importanti la candidatura del giurista Fiandaca in Sicilia, e si tratta di un avversario della tesi della trattativa Stato-mafia, così come la scelta di Andrea Orlando come Guardasigilli) ma senz’altro quello del fisco («Gli 80 euro sono solo l’inzio»), quello dell’organizzazione dello Stato, quello della burocrazia, quello dell’incapacità di attrarre investimenti anche stranieri, quello dell’ingessatura delle regole sul mercato del lavoro (fino a mettere in discussione lo Statuto dei lavoratori), quello dei costi della politica. E quando Grillo nel famoso duello streaming con Renzi si è lamentato dicendo «ci stai rubando la metà del programma», stava anticipando un po’ ciò che è accaduto in queste ore: il post-Pd che ruba i temi degli altri per rubargli gli elettori. Con una strategia che punta alla concretezza, e si riassume tra l’altro in un messaggio che in tanti volevano ascoltare: «In questo Paese - ha detto Renzi - la classe dirigente è stata molto classe e poco dirigente». Il 41,8 per cento riuscirà, oltre a tutto il resto, anche a cambiare il verso di queste parole e a rendere questa clamorosa svolta storica avvenuta nelle cabine elettorali davvero l’inizio di una fase nuova per un Paese che ne ha fortemente bisogno?
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