Vanzina: «Un film che racconta la metafora di Roma»

Vanzina: «Un film che racconta la metafora di Roma»
di Enrico Vanzina
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Martedì 14 Gennaio 2014, 09:15
Due domeniche fa la Roma ha perso con la Juve, ma due notti fa Roma ha vinto il suo scudetto ai Golden Globe.

Una vittoria attesa da lunghi anni e che Paolo Sorrentino, con il suo magnifico film La Grande Bellezza, rimette nella bacheca prestigiosa del grande cinema italiano. Adesso si punta all’Oscar con qualche certezza in più, con la consapevolezza che gli stranieri hanno amato e capito questo film che consacra la nostra capitale a livello planetario.

Ma per noi romani cos’è La Grande Bellezza? E’ un film che davvero racconta l’anima della nostra città? Oppure è un film pensato proprio per abbagliare gli stranieri con un pizzico di nostalgia Dolce Vita anni 2000 e con qualche tocco esagerato di colore locale?



Mi permetto di rispondere a queste domande visto che racconto Roma da una vita, al cinema e sulle pagine di queste giornale. Per me La Grande Bellezza è un affresco straordinario che coglie in maniera stupefacente la contraddizione odierna della nostra città: una Roma sopraffatta dalla sua bellezza. Da una parte ci sono i monumenti, i palazzi, i ponti, il fiume, le chiese, i parchi, le terrazze, la storia infinita. Dall’altra ci sono i romani, gente sfibrata dalla decadenza, intellettuali sterili, mondani allo sbaraglio, prelati vacui, borghesi e politici corrotti, tutti in lotta per sconfiggere la durezza del Tempo, tutti impegnati a fare qualche patto scellerato per sopravvivere.



Certo, non è la Roma vitale di Flaiano che descriveva la Roma fine Anni 50 della Dolce Vita. Qui siamo nella Roma post Flaiano che non sa più sorridere e riflettere, che si nutre di conformismo letterario, che balla per non pensare, che non ricorda, che è in balia di un’epoca grigia. A Via Veneto non c’è più il Cinema, la Letteratura, ma qualche mediorientale sfigato che cena da solo nei caffè vuoti. C’è la detestabile gauche caviar, così ben sfottuta da Servillo nel film. C’è una nobiltà miserabile che sopravvive a se stessa. C’è una borghesia immignottita. C’è quel demi monde che vaga attorno alle performance artistiche, vere patacche di un’arte senza più anima. Feste, cene, tutta roba inutile e senza senso. Anche la fede è diventata una roba da baraccone. Ma questa agghiacciante rappresentazione va in scena sul palcoscenico dell’eternità. Che la schiaccia, la tritura, la distrugge con lampi, appunto di Bellezza eterna.



Paolo Sorrentino non ha raccontato la Roma vera dei cafoni, dei borghesi, dei Circoli, dei coatti trionfanti, della furbizia buffa che ci propone spesso il cinema. No, lui ha preferito raccontare, con un tocco artistico, la metafora di Roma. Una metropoli che non trova un’identità moderna perché la sua gente è morta. Uccisa dalla spietata forza del suo passato.

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