Jean Sorel, 55 anni di cinema da protagonista con passione da adolescente innamorato

Jen Sorel
di Micaela Urbano
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Sabato 29 Marzo 2014, 15:15 - Ultimo aggiornamento: 3 Aprile, 11:37
Attore e gentiluomo. Ha attraversato 55 anni di cinema da protagonista. Con la passione di un adolescente innamorato («il set è sempre stato la mia amante») e l’ironia di chi non si è «mai preso sul serio». Jean Sorel, al secolo marchese Jean de Combault Roquebrune, cresciuto con il mito di un padre intellettuale e gaullista che perse la vita troppo presto combattendo contro i tedeschi, tirato su a etichetta a foie gras da una madre che aveva deciso il futuro per lui, «per lei bell’aspetto e buona educazione significavano la carriera diplomatica, che francamente m’interessava meno di niente. Volevo diventare attore». Finito il Liceo si arruola e viene spedito al fronte, in Algeria dove nel ’56 c’è la guerra. Al ritorno sostituisce un amico in una tournée teatrale e si convince sempre più che recitare sia la sua strada. Infatti già agli esordi sul grande schermo, assieme ad Alain Delon, diventa il sex-symbol di Francia. Lavora con nomi di rango che vanno da Visconti a Risi, Bolognini, Lattuada e Lizzani, da Bunuel a Lumet.

Adesso Sorel è un ragazzo alla vigilia degli 80 che conserva intatto l’incanto dello sguardo e l’entusiasmo di un ragazzo per il lavoro e per la vita. E il primo aprile sarà su Raiuno, nella serie Una buona stagione, con la regia di Gianni Lepre e Fabio Jephcott, realizzato da Dap per Raifiction, interpretata anche da Ottavia Piccolo, Luisa Ranieri e tanti altri attori.

Il suo personaggio?

«Quello di un ex medico con una famiglia difficile, problematica. Un uomo che se ne sta per conto suo, sente il peso degli anni, si rifugia nella pittura, ma per la moglie c’è sempre. Una specie di vecchio angelo custode».

Cosa è cambiato nel suo mestiere?

«Le persone. Più erano geniali più erano disponibili. Adesso non sono più né geniali né disponibili. Quando chiedevo a Pasolini o Moravia se fosse possibile cambiare una battuta, un’intera scena, non mi sbattevano la porta in faccia: mi ascoltavano. E di solito mi accontentavano».

Lei ha lavorato spesso in Italia...

«È un Paese che amo profondamente. Forse perché è culturalmente diverso dalla Francia. La gente è aperta, simpatica, piacevole, al contrario dei francesi, così rompiscatole, così fiscali, anche un po’ sciovinisti. Però quando un francese ti diventa amico lo è per la vita. Per me l’Italia è sempre una bellissima vacanza, ogni film che ci ho girato lo è stato. Così come lo è stato il cinema tutto. Perché mi ha permesso di conoscere una realtà molto lontana dalle mie origini familiari. Ricordo ancora il primo film, a Nizza, la mia Deux Chevaux, la mia fidanzatina di turno, poche pose e pochi franchi in tasca, ma albergo pagato, colazione e cena anche. Pensai: questo non è un lavoro, è evasione pura, divertimento. Sentivo di avere il mondo in mano».

Quanto aiuta la bellezza?

«Zero. Quando sei bello ti offrono solo ruoli da fesso, da tinca. Non conto le volte che ho invidiato attori con il naso adunco, lo zigomo troppo marcato, persino le gambe storte, il fisico mingherlino. Avevano sempre ruoli impegnati, contorti. Io, tranne una manciata di film, ero sempre il bello e possibile o il bello e impossibile».

Ha anche lavorato con attrici bellissime.

«Sì, ma mi sono innamorato solo di una. Sono sposato da 54 anni con Anna Maria Ferrero, non solo bellissima, ma brillante, curiosa, intelligente, affamata di vita».

Raquel Welch?

«Misure da pin up, provocante, prorompente. Lagnosa. Sul set de Le Fate, non faceva che piangere. Finiva una scena e scoppiava in lacrime. Problemi di cuore, ma che noia».

Claudia Cardinale?

«Una donna molto carina, affettuosa».

Gina Lollobrigida?

«Aveva un fisico perfetto. Era anche simpatica. L’ho conosciuta meglio di tante altre perché insieme abbiamo vissuto un’avventura ai confini della realtà. Nel 1965 giriamo insieme Monsignor Cupido, episodio de Le bambole, di Mauro Bolognini. Una commedia di tradimenti ordinari e straordinari. Non v’è ombra di scene di nudo, o volgari, ma il film non solo viene vietato ai minori di 18 anni, ma è denunciato per oscenità. Imputati, Bolognini, il produttore Gianni Hecht Lucari, Gina e io. Il nostro avvocato è uno dei migliori, si chiama Giovanni Leone...ma il giudice ci condanna: tre mesi a testa con la condizionale...»

Lei è bravo, eppure dice di non essersi mai preso sul serio...

«Non ci riesco. Sia perché questo mestiere che amo è un gioco, è come scrivere sull’acqua, come diceva il mio amico Marcello Mastroianni. Sia perché trovo patetici gli attori e i registi che si prendono sul serio. Non ho mai rivisto un mio film, tranne che per qualche anteprima ufficiale. D’altronde, il cinema è un sogno. Quando si spengono le luci finisce».
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