Salvatores spiega l'alchimia del successo e sfida le istituzioni: «Dateci leggi da Oscar»

Paolo Sorrentino e Gabriele Salvatores
di Fabio Ferzetti
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Mercoledì 5 Marzo 2014, 11:39 - Ultimo aggiornamento: 11:43
Da un Oscar all’altro. Sono passati pi di vent’anni dalla statuetta a Mediterraneo (Era il 1992, sembra preistoria!) ma la febbre da statuetta non cambia.



Le aspettative, i consigli, i progetti, le mille possibilità, i dubbi che anziché sparire si impennano. E l’eterno dilemma: cambierà qualcosa, adesso, per il trascuratissimo cinema italiano?



Gabriele Salvatores, classe 1950, parla dalla quiete della moviola. Sta montando il suo nuovo film, Il ragazzo invisibile, storia molto sui generis di un supereroe adolescente con Valeria Golino, Fabrizio Bentivoglio, Ksenia Rappoport, e i giovanissimi Noa Zatta e Ludovico Girardello. Ma ha seguito passo dopo passo la marcia della Grande bellezza verso l’Oscar. «Conosco e ammiro Sorrentino fin dal suo primo film, L’uomo in più. Quando anni fa Mario Sesti mi chiese con chi avrei voluto dialogare sul palco del festival di Roma, feci subito il suo nome».



Si aspettava questo Oscar?

«In un certo senso sì. Lo dissi a Nicola Giuliano, il produttore della Indigo, quando erano ancora sul set. Ha più chances internazionali questo film così romano che This Must Be the Place, girato negli Usa. Ma la cosa davvero importante è che il premio va a un film capace di scavalcare il vecchio concetto di realismo per raccontare l’interiorità dei personaggi. Con grande forza visionaria e una qualità di scrittura che invidio a Paolo da sempre».



Un Oscar nel 1992 e uno nel 2014. Cosa è cambiato?

«Tutto. Allora non c’era tutto questo gossip, e nemmeno Internet. Nel ’96, quando feci Nirvana, il grande pubblico ancora non capiva di cosa parlassimo. E poi siamo cambiati noi. La notizia della candidatura mi raggiunse in Messico, sul set di Puerto Escondido. Era l’ultima cosa che mi aspettavo. Vissi tutto quasi con senso di colpa, perché da figlio di un’ideologia sbagliata vedevo ancora Hollywood un po’ come nemica. Avevo in mente Marlon Brando che non si presenta, Bertolucci che sparava contro l’Academy... Eravamo così certi di non vincere che non avevamo nemmeno lo smoking. E Mario Cecchi Gori, il produttore, partì per l’Italia alla vigilia della premiazione! Fu un po’ come vincere alla lotteria, e a ripensarci fu meglio così».



Oggi invece?

«Oggi fin dalla designazione dell’Italia, prima dell’eventuale ingresso in cinquina, si fa un lavoro enorme, decisivo. Alla Indigo sono stati bravi, credo che abbiano investito molto di tasca loro perché il Ministero dà una cifra ridicola, 120 mila euro o giù di lì. Invece devi viaggiare, partecipare a festival e incontri, fare proiezioni... Io non ho paura non entrò nemmeno in cinquina, ma passai un mese e mezzo in giro per gli Stati Uniti. Il cinema lì è un’industria. Da noi invece è la solita storia: tutti saltano sul carro del vincitore ma dov’erano prima? Franceschini dice che ora punterà sulla cultura, ma cifre non ne fa».



Problema antico, purtroppo.

«Infatti. Anche Prodi fece i suoi bravi tagli alla cultura. Eppure quella è la nostra forza, una delle risorse principali del Paese. Ma non è solo la politica il problema. A noi autori si chiede sempre di stare un passo davanti al pubblico, come diceva Brecht. Però dovrebbero farlo anche i media, la tv, le istituzioni. Invece non c’è nessun sostegno per il nostro cinema, le riviste specializzate sono alla canna del gas, la tv pubblica ha un solo programma di cinema, a dir poco superficiale, che va in onda all’una di notte! Sarebbe ora di dire basta e di farlo tutti insieme. Ma anche noi del cinema siamo divisi, individualisti, incapaci di fare gioco di squadra. Così perdiamo i giovani, che hanno ormai un rapporto distaccato col cinema, come potevamo averlo noi con la lirica».



Provvedimenti urgenti?

«Il primo nodo è Internet. Gli esercenti mi uccideranno, ma non c’è più un solo pubblico, ci sono tanti pubblici diversi che devono poter vedere i film su piattaforme diverse, in contemporanea o quasi. Così si sfrutta il lancio nelle sale per arrivare su diversi canali».



Con Tornatore e Sorrentino non avete in comune solo l’Oscar. Tutti e tre avete fatto un film in inglese. Solo così si conquistano mercati più ampi?

«La lingua apre molte porte ma non basta. E poi non bisogna tradire se stessi, ma lavorare sulle proprie radici, come dice proprio Sorrentino, restando insieme sorprendenti e riconoscibili. Su La grande bellezza il New York Times ha fatto un titolo geniale: “La dolce vita al tempo di Berlusconi”. Due concetti chiarissimi per un film mai visto. Ecco, la formula è un po’ questa».
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