Festival Venezia, ecco Gravity: Clooney e Bullock, lo spazio della solitudine

Clooney nel film Gravity
di Fabio Ferzetti
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Giovedì 29 Agosto 2013, 15:25 - Ultimo aggiornamento: 31 Agosto, 13:59
dal nostro inviato Fabio Ferzetti

VENEZIA - A testa in gi, con le gambe all’aria, roteanti come pale di un mulino, leggeri come foglie al vento, uniti da un cavo che si tende e si aggroviglia sbatacchiandoli senza pietà, il corpo che si contrae lottando contro l’assenza di peso, di controllo, di direzione.



Non si erano mai visti due divi come George Clooney e Sandra Bullock strapazzati come in Gravity. Quasi invisibili, nascosti da tute e caschi spaziali per buona parte del film (Clooney ha una sola scena a volto scoperto), calati dentro due personaggi che sono una somma di archetipi senza precedenti e insieme una metafora flessibile e potente. Due astronauti usciti a spasso nello spazio per riparare il loro shuttle che si trovano ad affrontare un’emergenza catastrofica.



NAUFRAGHI

Come naufraghi battuti da una tempesta, senza più canali di comunicazione con la madre Terra. E assediati dal silenzio, dal vuoto cosmico, da una serie di macchinari sofisticati e di colpo inservibili, minacciosi, ammassi metallici che non sono più docile tecnologia ma materia bruta e contundente. Il tutto esaltato da un 3D che per una volta non ha nulla di decorativo.



Naturalmente si pensa alla fantascienza filosofica di Kubrick, il nome più citato uscendo dal film del messicano Alfonso Cuarón, regista anomalo e sempre spiazzante (Y Tu Mama Tambièn, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, Figli degli uomini). Ma è in parte una falsa pista. Anzi per certi versi Gravity è l’opposto di 2001. Non solo per la coloritura ironica dei dialoghi (con Clooney che fa mister cool per guidare e rassicurare la Bullock, terrorizzata dunque a rischio di finire in anticipo lo scarso ossigeno), ma perché è l’orizzonte stesso del film a essere diverso.



Kubrick girava nel 1968, all’alba dell’era informatica, e partiva dal divenire umano delle macchine, ovvero dalla possibilità di simulare il cervello (Hal 9000). Cuaròn, che ha scritto Gravity con suo figlio Jonas, ribalta la prospettiva. Non parte dalla mente ma dal corpo (anche per questo, oltre che per racimolare gli 80 milioni necessari, sceglie due divi). Che ne è del nostro corpo - gambe, braccia, sensi, riflessi - oggi che le macchine sono parte integrante della nostra vita? Che cosa ci succede se a forza di delegare, smaterializzare, implementare, non distinguiamo più alto e basso, vicino e lontano, reale e virtuale?



2001 coglieva nella nascita della tecnica (l’osso che diventava astronave) il punto di non ritorno della specie umana. Gravity è figlio di Google Earth, della finta onnipotenza e della profonda malinconia dei nostri anni. La corsa allo spazio è finita da un pezzo. Oggi è lo spazio (virtuale) che entra in noi, svuotandoci, non viceversa. Siamo noi i pianeti da (ri)conquistare. Anche se «l’alba sul Gange», come dice Clooney, vista da lassù è meravigliosa.



E in fondo a preoccuparsi del futuro è anche il cinema in quanto tale, come si vedeva nei corti (1-2 minuti massimo) girati per Venezia da 70 registi di tutto il mondo (tutti visibili sul sito della Biennale a Mostra finita). Con moltissimi bambini, occhi, videofonini, nostalgia serpeggiante per il cinema di ieri e delle origini, ma anche immagini che lasciano il segno per forza plastica o premonitoria. Paul Schrader che cammina e filosofeggia dentro un’imbracatura irta di videocamere. Una voce elettronica che elenca - in cinese - i titoli e le materie obbligatorie nei corsi di cinema del futuro (Todd Solondz, irresistibile). Due proiettori piazzati fra le isole greche che proiettano nel nulla (Athina Tsangari). Un bambino che “fa” cinema costruendo mostri di cartone (Tsukamoto padre e figlio). Un barbone che suona un motivo bellissimo sull’armonica e poi saluta: «Non guardo la tv e non leggo i gionali, dunque non mi rivedrò mai». Il cinema non muore. Sta solo rinascendo.